Sono una caregiver, soffro in silenzio e sorrido in pubblico.

Il 26 dicembre un maledetto batterio ha cercato di strapparmi mio marito. Ancora una volta. Poi è arrivato il Covid. Ma noi siamo ancora qui.

Foto di Irene Vella

Irene Vella

Giornalista televisiva

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Sono tornata, e questa volta mi auguro di restare per lungo tempo. Ho pensato tanto se fosse il caso di raccontare, ancora una volta, la mia vita, ma poi mi sono detta che sì, la vita è anche questa, e che per quelli come noi, messi a dura prova costantemente dalle avversità, potesse essere un modo per mettere un punto e ricominciare. È più di un mese che manco da queste pagine, per quattro settimane ho dovuto mettere nuovamente in stand by la mia esistenza e quella della mia famiglia, e non ho avuto né la forza, né la voglia di mettere nero su bianco quello che è accaduto, perché ogni volta mi sembra che a scriverlo diventi ancora più reale. Eppure sono qua, per un senso di trasparenza che mi contraddistingue da sempre, per un voler andare a capo, anche se ancora non ne siamo venuti completamente fuori, ma serve a me per riprendere il filo del discorso, esattamente da dove l’avevo lasciato. E credetemi non lo faccio per mania di protagonismo, ma solo per raccontare anche queste realtà, che sono quelle di tante famiglie, che vivono a contatto con una malattia cronica, come può essere quella di un trapiantato.

Ci chiamano caregiver, perché persone che soffrono in silenzio accanto ad una persona malata sarebbe stato troppo lungo, eppure siamo un esercito, ed io, purtroppo, non sarò né la prima, né l’ultima, ma condividere il dolore: è terapeutico, ti fa sentire meno sola, e a volte, ti alleggerisce di un peso, che altrimenti, in certi giorni, potrebbe sopraffarti, e questo è un lusso che non ti puoi permettere. Di noi si parla sporadicamente in qualche articolo, magari perché chi racconta vive la tua stessa situazione, oppure perché sotto Natale siamo tutti più buoni, ma il nostro è un dramma nascosto, spesso dietro sorrisi di circostanza, perché dobbiamo essere forti, lo dobbiamo a chi sta più male di noi, o ai nostri figli, anche se a volte vorresti solo rinchiuderti in una stanza e piangere fino a quando le lacrime saranno finite. Ma non lo fai, perché pensi quasi di non averne diritto, perché alla fine il tuo è “solo” un malessere mentale, che prima o poi passerà, mentre chi ti sta accanto sta “davvero” male fisicamente, e tu, non puoi permetterti di cadere, perché, se cadi tu, tutto il castello su cui si basa la tua famiglia cadrà con te.

Eppure questa volta è stata la più difficile di tutte, perché quando la persona che ami più della tua stessa vita, l’uomo con cui hai deciso di condividere l’esistenza, è ricoverato in un letto d’ospedale in preda a una febbre che non accenna minimamente a scendere, con un’infezione sconosciuta, con tutte le colture negative, non sai più dove sbattere la testa. Perché tu lo sai, pur non essendo un medico, qual è il rischio che corre, perché in un immunodepresso una diagnosi tardiva o sconosciuta, in tanti, troppi casi può avere un solo esito, ed è infausto. Il 26 dicembre ho avuto paura di perdere il mio amore, è stata la prima volta che mi sono seduta accanto al suo letto accarezzandogli la testa, non riuscendo a trattenere le lacrime, è stata la prima volta che sono tornata a casa non sapendo se l’avrei rivisto, è stata la prima volta che la mia testa non riusciva a staccarsi dallo schermo del telefono, con il terrore che l’ospedale potesse chiamarmi durante la notte. E all’improvviso la dialisi, che da sempre era la mia paura più grande, è diventata la normalità, il mio unico pensiero è stato quello di trovare una via d’uscita a tutto questo dolore. Poi nel giro di due giorni è stata trovata la causa dell’infezione, il maledetto batterio che lo aveva invaso colpendo intestino, polmoni e e fegato, e piano piano abbiamo cominciato intravedere una piccola e fievole luce in fondo al tunnel, sperando, non fosse un treno. Ma siccome sembrava non avessimo dato già abbastanza dopo aver timidamente alzato la testa ci è venuto a trovare il Covid, così in un 4 gennaio qualsiasi, e lì veramente mi è caduta la terra sotto i piedi.

Fonte: Irene Vella
Irene Vella e il marito Luigi Pagana

Eppure questa situazione all’improvviso ci ha dato l’opportunità di ricongiungerci, perché la sua positività poteva significare solo una cosa, di essere spostato nel reparto di malattie infettive a Mestre, con tutti i rischi del caso, e allora vista la “nostra” vicinanza all’ospedale, visto che comunque tre volte alla settimana sarebbe dovuto rientrare per la dialisi, il mio amore ha firmato le dimissioni contro il parere dei medici ed è tornato a casa, è tornato per fare la quarantena con me, e in un attimo, questo virus che da due anni massacra il mondo, ci stava dando l’opportunità di stare di nuovo insieme, io e lui, “due covid e una capanna“. Adesso sono otto giorni che dormiamo nuovamente sotto lo stesso tetto, che la vita ha ripreso a scorrere, anche se la normalità è ancora lontana, ma noi ci accontentiamo così, ci basta di essere insieme, con tutta la fatica del caso, ma ancora insieme.

Ad oggi non so dirvi quando ne usciremo, ma sono sicura che accadrà, e vorrei cogliere l’occasione per fare dei ringraziamenti, che, anche se non dovuti, mi escono dal cuore. In primis al reparto di Nefrologia di Dolo, che non ci ha mai lasciato da soli, che ci ha preso per mano, ormai quattro anni fa, e ci ha salvato in più di un’occasione, e credetemi non è così facile trovare professionalità e umanità in ospedale, ma la dottoressa Giacomini e tutto il suo staff, medici, infermieri e oss compresi, sono l’esempio lampante di una sanità che funziona. Poi vorrei ringraziare tutte le amiche e colleghe di Dilei che mi sono state vicino lasciandomi tutto il tempo necessario a ritrovarmi e a guarirmi, e credetemi, non è così scontato, ma io il loro bene me lo sono preso tutto. Ed infine un ringraziamento speciale a tutte le persone che sui social mi sono state vicino, accorciando le distanze, chi con una preghiera, chi con un panettone, chi è venuto a portarci il pranzo di Natale, chi ci ha mandato portafortuna, chi mi ha scritto ogni giorno, chi ha pianto e chi ha gioito con me, chi ci ha scattato una foto da lontano, chi, con la sola presenza, ha condiviso questo percorso con me, aiutandomi a portare un peso, che a tratti, è sembrato infinito. Un grazie di cuore a tutti perché il bene non è mai scontato e, anche se a volte non basta, una cosa l’ho imparata, di sicuro aiuta. E a me ha aiutato tanto. Grazie.