Ha ucciso la figlia disabile e si è suicidato: Francesco e la fragilità della disperazione

Francesco ha ucciso sua figlia, 47 anni disabile, e poi si è suicidato con lo stesso coltello. Perché quello era l'unico e tragico modo per restare insieme anche nella morte

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Sabina Petrazzuolo

Lifestyle editor e storyteller

Scrittrice e storyteller. Scovo emozioni e le trasformo in storie. Lifestyle blogger e autrice di 365 giorni, tutti i giorni, per essere felice

Mi capita spesso, durante le interviste, di avere a che fare con genitori di figli con disabilità. Parliamo tanto e di tutto e indipendentemente dalla finalità di quella chiacchierata, c’è un argomento che torna e ritorna sempre, con prepotenza e con delicatezza. Si tratta di una domanda, in realtà, che quegli stessi genitori si pongono senza però trovare mai una risposta esaustiva, rassicurante e confortevole. Ed è proprio la mancanza di questa che, a volte, si trasforma in un tormento.

Che ne sarà di mio figlio dopo di me è una domanda che non lascia tregua, soprattutto ai genitori che hanno un figlio con disabilità. Si chiedono chi sarà la persona che prenderà il loro posto, se sarà in grado di comprendere i silenzi e i disagi, se saprà occuparsi di quel ragazzo con la stessa premura e l’amore che appartengono a un genitore.

Domande, queste, che forse si poneva anche Francesco e che erano diventate troppo ingombranti nell’ultimo periodo. Un peso, questo, che oscurava i sentimenti e la lucidità del cuore e della mente già occupati dalla fragilità umana. E la fragilità, si sa, sa bene come trasformarsi in disperazione.

Così, disperato, Francesco ha ucciso sua figlia. Quella bambina, che ormai era una donna, con la quale condivideva le giornate e la quotidianità. Quella figlia che, senza dubbi alcuni per chi lo conosceva, era anche la sua unica ragione di vita. E infatti, Francesco, alla sua vita ci ha rinunciato, perché dopo aver ucciso Rossana si è suicidato.

Un omicidio suicidio che ha scosso l’Italia e ancora di più i cittadini di Osnago. Perché in quel piccolo comune della provincia di Lecco, abitato da poco più di 4000 anime, tutti si conoscono, e tutti conoscevano Francesco Iantorno. Lo chiamavano Franco, quell’uomo di 80 anni che era stato un vigile e un dipendente comunale, e che ora trascorreva le sue giornate sempre insieme a sua figlia, Rossana, una donna disabile di 47 anni.

E forse è stato la consapevolezza dell’età che avanza, e che non fa sconti, a diventare un peso sempre più ingombrante e insopportabile, a creare quell’ombra di disperazione che ha oscurato la luce di una quotidianità condivisa. Perché è solo così che chi conosceva Franco può dare un senso a quello che è successo, alla scelta di un padre amorevole che ha riscritto col sangue il finale di questa storia, sedando e uccidendo sua figlia e poi togliendosi la vita con lo stesso coltello.

Perché lo ha fatto? Perché arrivare a uccidere la persona che più si ama? Se lo chiedono in tanti, se lo chiedono tutti senza riuscire a trovare una risposta. Perché al di là del bravuomo che emerge nei tanti racconti di chi lo conosceva, c’è una certezza che nessuno osa mettere in dubbio: l’amore incondizionato che quel papà nutriva nei confronti di sua figlia.

Il loro era un legame speciale, straordinario, quasi simbiotico, sicuramente di reciproca dipendenza. Ed è forse proprio da questa consapevolezza che la paura di ciò che sarebbe stato dopo si è trasformata in una tragica disperazione.

E allora sembra quasi di vederle prendere forma quelle domande nella mente di Franco, quelle che creano i mostri spaventosi che danno il tormento: chi si occuperà di Rossana quando io non ci sarò più? Chi la salverà da un mondo crudele che spesso lascia indietro i diversi, i fragili e gli ultimi? Poi la soluzione a quella domanda che non gli dava pace. Chiara, precisa, drammatica: morire insieme.