La fragilità del male: il Mostro di Milwaukee

Uccideva le sue vittime, violentava i loro cadaveri e li smembrava. A volte li mangiava. Ecco la vera storia di Jeffrey Dahmer, il Mostro fragile di Milwaukee

Foto di Sabina Petrazzuolo

Sabina Petrazzuolo

Lifestyle editor e storyteller

Scrittrice e storyteller. Scovo emozioni e le trasformo in storie. Lifestyle blogger e autrice di 365 giorni, tutti i giorni, per essere felice

Jeffrey Dahmer è un mostro. Non hanno dubbi le famiglie che sono diventate vittime delle sue azioni, dovendo sopravvivere alla morte dei loro cari. Non hanno dubbi neanche i cittadini della comunità di Milwaukee, nel Wisconsin, dove si sono susseguiti negli anni i suoi omicidi, tra l’indifferenza generale, gli errori delle autorità che hanno preferito salvare le apparenze, prima che le persone.

Jeffrey Dahmer è il mostro della serie televisiva che sta spopolando su Netflix, quella che ripercorre fedelmente le tappe della vita di uno dei più celebri serial killer d’America.

Un assassino, un necrofilo, un pedofilo e un cannibale. Ma anche un uomo, pericolosamente fragile, che non ha cercato la via della redenzione neanche per un momento. Che non è stato spinto da una follia omicida che non si può spiegare, ma da una lucida consapevolezza che gli ha permesso di pensare, calcolare e agire indisturbato per anni. Ecco chi era Jeffrey Dahmer, il Mostro di Milwaukee.

Dahmer – Monster: The Jeffrey Dahmer Story

La somiglianza tra Jeffrey Dahmer e Evan Peters è così tanta che è impossibile non notarla. La differenza sostanziale sta nel fatto che uno è il serial killer d’America, l’altro è l’attore che ha indossato i suoi panni, ricoprendo probabilmente il ruolo più difficile di una carriera intera.

Non è solo la somiglianza dei lineamenti, a rendere più vivida la narrazione di Dahmer – Monster: The Jeffrey Dahmer Story, ma anche le movenze, il portamento, le braccia che oscillando accompagnano quella camminata quasi meccanica.

Jeffrey è strano. Lo sanno i suoi compagni di scuola che lo escludono, i colleghi di lavoro con i quali non stringe mai amicizia e persino suo padre, che preferisce non indagare sull’orientamento sessuale del figlio, piuttosto che sui motivi che lo rendono sempre così apatico e solitario. Jeffrey è strano e lo sanno tutti, ma nessuno sa che è un mostro, che uccide le persone, che abusa sessualmente dei cadaveri e che poi li smembra, li scioglie nell’acido o li conserva.

È un serial killer, uno dei fautori degli omicidi più efferati dell’intera America, eppure chiunque abbia visto il telefilm non ha potuto fare a meno di empatizzare con lui, se non durante tutti gli episodi, chiaramente, lo ha fatto in diversi momenti. Quelli che raccontavano una vita vuota, fatta di paura della solitudine e dell’abbandono. Perché sì, Jeffrey era solo perché era stato abbandonato. Da suo padre e poi da sua madre. E li trascorreva così, i suoi giorni, soffocando quei pensieri che lo tormentava e che lui cercava di mettere a tacere.

Quegli stessi pensieri che, a un certo punto, sono emersi prepotentemente e gli hanno dato la spinta a uccidere. Non gli si è annebbiata la mente, non è follia la sua, è solo paura di essere lasciato solo, e consapevolezza che questo accadrà sempre. Non che questa sia una giustificazione, intendiamoci, perché quelle 17 persone sono morte e nessuno stato d’animo può giustificare tale drammaticità. Eppure, dicevamo, sembra quasi impossibile non empatizzare con lui perché del resto nessuno di noi vorrebbe mai essere abbandonato. Perché Dahmer è un uomo fragile, e per questo mostruosamente pericoloso.

Biografia di un serial killer

Nato il 21 maggio del 1994, Jeffrey Lionel Dahmer è stato il fautore di 17 omicidi e per questo considerato un serial killer. Per lui sono stati coniati gli appellativi di Cannibale e Mostro di Milwaukee, perché non si limitava solo a uccidere le sue vittime, ma violentava i loro corpi, da vivi e da morti, li sembrava e li mangiava.

Primogenito di Lionel Harbert Dahmer e di Joyce Annette, Jeffrey nasce e cresce a Milwaukee fino all’età di sei anni, quando insieme alla sua famiglia si trasferisce a Doylestown. È qui che inizia a sviluppare un carattere chiuso e introverso, per molti versi anche apatico. Trascorre la maggior parte del suo tempo da solo, una solitudine acuita dall’assenza di suo padre che è spesso fuori per lavoro, e di sua madre che essendo depressa fa abuso di psicofarmaci e trascorre la maggior parte del suo tempo a letto. Neanche la nascita di suo fratello minore, David, cambierà le sorti del giovane Dahmer.

Jeffrey sembra poco interessato a socializzare, a farsi degli amici e a coltivare degli interessi. Ma scopre comunque una bizzarra passione nei confronti degli animali morti. Inizia così a collezionarli, incoraggiato anche dallo stesso padre che vede in quell’interesse una certa propensione all’attività scientifica.

Gli anni passano e le cose non cambiano, e Jeffrey che è sempre più solo inizia ad abusare dell’alcol appena sedicenne. Sono gli stessi anni in cui scopre di essere gay, ma gli anni in cui vive non gli permettono di ammetterlo con serenità, così soffoca le pulsione e gli istinti, nascondendo il suo orientamento sessuale alla famiglia e ai conoscenti.

Nel 1977 i genitori si separano, e mentre il padre va a vivere in un motel, e la madre si trasferisce altrove con suo figlio David, Jeffrey resta solo nella casa di famiglia in Ohio.

Lionel Dahmer e la sua seconda moglie
Fonte: Getty Images
Lionel Dahmer e la sua seconda moglie

Gli omicidi

È proprio in quel periodo che, finite le scuole, Jeffrey commette il suo primo omicidio. Si tratta di Steve Hicks, un ragazzo di 19 anni che incontra sulla strada e che sta cercando un passaggio per raggiungere i suoi amici. Dahmer promette di accompagnarlo, ma prima lo invita a casa sua per bere qualcosa. Dopo un paio di birre le colpisce con un peso e lo soffoca togliendogli la vita. Prima di smembrare il suo corpo, si masturba sul suo cadavere.

Il delitto sembra isolato, almeno in un primo momento, e Jeffrey continua la sua vita, prima iscrivendosi all’Università e poi arruolandosi nell’esercito, su richiesta di suo padre. A causa del suo alcolismo, diventato sempre più grave, viene congedato nel 1981.

Suo padre, che intanto cerca di stimolarlo a trovare un lavoro e una strada da seguire, lo manda a vivere con sua nonna. La convivenza, nel primo periodo, sembra andare bene, nonostante Jeffrey continua ad avere impulsi omicidi che sembrano essere placati dal collezionismo di animali morti. Ben presto, però, quello non gli basta più e il 20 settembre del 1987 commette il suo secondo omicidio.

Inizia così una serie di omicidi che vengono consumati all’interno della casa della nonna. Le vittime sono uomini gay appartenenti a minoranze etniche che Jeffrey incontra nei locali e che stordisce con sonniferi e droghe. L’odore dei cadaveri putrefatti conservati in cantina diventa insopportabile, così come i rumori molesti in tarda notte, convincono la nonna ad allontanare il ragazzo.

Succede però che, una delle sue designate vittime, riesce a scappare. Si tratta di Somsak Sinthasomphone, un ragazzo di origini asiatiche che ha solo 13 anni. Parte così una denuncia per violenze e abusi, ma piuttosto che in carcere, Jeffrey viene mandato in un ospedale psichiatrico a scontare la sua pena. Due anni dopo toccò al fratello di Somsak, Konerak Sinthasomphone. Riuscì a scappare e chiedere aiuto a due donne, che chiamarono la polizia. Tuttavia Dahmer riuscì a convincere che Konerak (incapace di difendersi perché drogato) era il suo fidanzato 19enne e che i due avevano litigato. Dahemer o uccise, violentò, fece a pezzi e mangiò parzialmente. I due agenti furono sollevati dai loro incarichi ma ben presto furono reintegrati.

924 North 25th Street: la casa degli orrori

Il 14 maggio del 1990, Jeffrey Dahmer ottiene la libertà condizionata e si trasferisce al 924 North 25th Street, in quella che diventerà la casa degli orrori. Nell’appartamento porterà alcuni resti dei corpi degli uomini che ha già ucciso.

Gli omicidi qui si intensificheranno, portando a contare dodici vittime nel giro di un anno. I metodi sono sempre gli stessi: gli uomini conosciuti nei bar gay vengono drogati e narcotizzati, poi uccisi per asfissia. Spesso Jeffrey abusa e violenta i cadaveri prima di smembrarli, scioglierli nell’acido e conservarli. Tutte le sue azioni vengono documentate con fotografie che l’uomo conserva. A volte Dahmer sperimenta anche la lobotomia prima di ucciderli.

Lo fa perché non è capace di avere dei rapporti sessuali, e prima ancora umani. Perché non sa come interagire con le sue vittime e ha paura che queste possano abbandonarlo. Così prende il controllo della situazione e dei loro corpi senza che loro possa no decidere.

Durante la permanenza al 924 North 25th Street, le azioni di Jeffrey Dahmer non passano inosservate. I vicini inviano continue segnalazioni alle forze dell’ordine, denunciando gli odori insopportabili e le urla provenienti dall’appartamento. Queste persone, però, non vengono ascoltate perché nell’America degli anni ’90 gli uomini bianchi sono rispettabili, i neri no. E nessuna osa mettere in discussione quel ragazzo dall’aspetto per bene, così come nessuno prova a indagare davvero sulle persone scomparse. Perché sono nere e sono omosessuali, perché secondo la polizia si sono allontanate volontariamente da casa per continuare ad abusare di droghe e alcol.

Il 22 luglio del 1991, però, succede qualcosa che sfugge al controllo di Dahmer. Tracy Edwards, un giovane conosciuto in un locale gay e destinato a diventare la vittima numero 18, si accorge della presenza dei resti dei cadaveri e scappa dalla casa di Jeffrey. Si reca dalla polizia che questa volta non può non ascoltare, non può fingere. Gli agenti, una volta arrivati a casa di Dahmer, scoprono i corpi smembrati, trovano i teschi umani e parti del corpo avvolti in sacchetti di plastica.

Ora è finita. Qui non si è mai trattato di cercare di essere liberato. Non ho voluto mai la libertà. Sinceramente, volevo la pena capitale per me stesso. Qui si è trattato di dire al mondo che ho fatto quello che ho fatto, ma non per ragioni di odio. Non ho odiato nessuno. Sapevo di essere malato, o malvagio o entrambe le cose. Ora credo di essere stato malato. I dottori mi hanno parlato della mia malattia, e ora mi sento in pace. So quanto male ho causato… Grazie a Dio non potrò più fare del male. Credo che solo il Signore Gesù Cristo possa salvarmi dai miei peccati… Non chiedo attenuanti. (Lettera inviata da Dahmer al giudice responsabile del processo)

Jeffrey Dahmer viene riconosciuto colpevole il 13 luglio del 1992 e condannato all’ergastolo per ogni omicidio commesso, totalizzando quindi 958 anni di prigione. Viene incarcerato nel Columbia Correctional Institute di Portage dove trascorre i suoi giorni in solitudine. Due anni dopo, viene aggredito da un detenuto e per questo gli viene proposto di trasferirsi in una cella in isolamento. Ma Dahmer rifiuta: non ha paura della morta se questa può trasformarsi in una punizione per ciò che ha fatto. Il 28 novembre dello stesso anno viene aggredito da un altro detenuto che lo uccide. Moriva così il Mostro di Milwaukee.

Jeffrey Dahmer
Fonte: Getty Images
Jeffrey Dahmer