Lucia Joyce, la donna che visse all’ombra di un genio

Nella memoria collettiva lei resta solo "la figlia di", colpevole di aver avuto al suo fianco, fino alla fine, la presenza amorevole e ingombrante di suo padre

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Sabina Petrazzuolo

Lifestyle editor e storyteller

Scrittrice e storyteller. Scovo emozioni e le trasformo in storie. Lifestyle blogger e autrice di 365 giorni, tutti i giorni, per essere felice

“Figlia di un genio, nata dal genio, allieva di un genio, paziente di un genio”, questo è quello che si potrebbe leggere sulla lapide di Lucia Joyce nel piccolo cimitero di Northampton in Inghilterra, per raccontare la vita e l’esistenza intera di una donna vissuta all’ombra di suo padre.

Ma sulla sua epigrafe, in realtà, si leggono solo il suo nome e la data di morte, poi il silenzio, almeno fino a quando biografi e saggisti hanno iniziato a scandagliare l’intera opera di James Joyce alla ricerca di qualcosa, di qualsiasi cosa che colmasse il vuoto biografico di sua figlia.

E di cose sulla giovane Joyce ne sono state trovate davvero poche. Del resto quella era l’epoca degli uomini, di quelli grandi e celebri che hanno fatto la storia, quello era il tempo del padre, il genio indiscusso della letteratura del XX secolo e Lucia era solo sua figlia.

La figlia del genio

Di Lucia Joyce, figlia di James, sappiamo che era una ragazza bellissima il cui talento era manifestato attraverso la danza, come raccontano le poche fotografie che la ritraggono contorcersi delicatamente su stessa come una leggiadra creatura. Poi il vuoto, forse perché nessuna storia raccontata avrebbe potuto colorare le pagine di una vita trascorsa, quasi interamente, all’interno di un manicomio.

Lucia aveva solo 28 anni quando venne internata per la prima volta, quando il suo intero mondo cessò di esistere per la storia. Le cause, ancora oggi, sono sconosciute. Sappiamo però che trascorse tre quarti della sua lunga vita in manicomio con la sola e unica presenza del padre, la stessa che riusciva a calmare, e a mettere a tacere i suoi demoni, i suoi tentativi di suicidio o quelle strane lettere scritte ai morti. Né la madre, né suo fratello, invece, andarono mai a trovarla.

Ma poi James morì improvvisamente nel 1941 e nessuno avvisò sua figlia. Lucia, rimasta sola, venne trasferita all’interno del manicomio di Northampton e venne dimenticata lì fino a quando, nel 1982, morì a settantacinque anni.

Chi era davvero Lucia Joyce

Eppure il suo destino, da quelle poche informazioni trapelate attraverso il padre, sembrava ben diverso da quello che abbiamo conosciuto. Lucia danzava e lo faceva come poche altre ballerine al mondo. Aveva partecipato al festival internazionale di danza del Bal Bullier, nel quartiere Latino a Parigi. Erano gli anni Venti, quelli della follia e della bellezza nella città in cui l’arte poteva esprimersi in tutte le sue possibili forme. E lei si raccontava attraverso la danza in una maniera così grandiosa che qualcuno aveva osato anche pensare che un giorno Lucia avrebbe avuto più popolarità del padre.

Un pensiero, questo, che aveva reso orgoglioso l’immortale James, perché lui aveva sempre creduto in sua figlia. I due condivisero un legame immenso e immortale che venne cristallizzato attraverso un linguaggio criptico, un codice presente sulle pagine di Finnegan’s Wake, l’opera più enigmatica di Joyce.

James non la lasciò sola mai. Quando Lucia mostrò i primi segni di squilibrio mentale, lo scrittore irlandese la portò ovunque per sottoporla a controlli, cure e terapie di ogni genere. Ma le diagnosi avevano già rivelato il suo destino: schizofrenia, nevrosi e ciclotimia.

James non si arrese, non finché era in vita. L’ultimo grande tentativo fu quello fatto in Svizzera: Lucia venne affidata alle cure di Carl Gustav Jung, ma si rivelano fallimentari. Lo psichiatra svizzero decise così di distruggere tutte le cartelle cliniche facendo così scomparire qualsiasi documento di Lucia Joyce. Diari, disegni, poesie e fotografie: della figlia del genio non rimase più niente.

Così nella memoria collettiva lei resta solo “la figlia di”, colpevole di avere avuto al suo fianco, per tutta la vita, la sola presenza premurosa, disperata e ingombrante di James.