C’è stata un’epoca in cui non essere allineati con il pensiero comune, ribellarsi, avere delle idee ti rendeva diverso, qualcuno da guardare con sospetto. Erano i tempi in cui dire che una persona era pazza era quasi normale.
La verità è che gli anni sono capaci di restituire storie che nulla hanno a che vedere con la follia, ma tanto hanno a che fare con la forza di volontà, con gli ideali e con il desiderio di cambiare il mondo.
Tra tutte queste storie c’è quella della “matta” di piazza Giudia, Elena Di Porto, una donna che ha combattuto in prima persona per la giustizia e lo ha fatto in uno dei periodi più bui della storia dell’umanità: quello del nazifascismo e della Seconda Guerra Mondiale.
Elena, infatti, è stata una delle protagoniste della lotta, ha tentato di mettere in salvo le persone prima del rastrellamento del ghetto romano datato 16 ottobre 1943 e ha finito la sua vita deportata ad Auschwitz-Birkenau.
Elena Di Porto, la sua storia
La conoscevano come pazza, così veniva definita dalle persone. Matta. Ma non lo era davvero. Aveva delle idee, aveva degli ideali, aveva uno spirito combattivo. Tutte cose che ha pagato a caro prezzo. Quello che doveva mettere in conto una donna che oggi potremmo definire una femminista: una donna determinata e forte dei primi del Novecento.
La sua storia, fatta di coraggio e di lotte, è stata raccontata nel libro La matta di piazza Giudia. Storia e memoria dell’ebrea romana Elena Di Porto, edito da Giuntina e scritto dallo storico Gaetano Petraglia.
Nata l’11 novembre del 1912, Elena Di Porto è stata rinchiusa nell’ospedale psichiatrico per un totale di circa quattro volte, la prima – stando a quanto scritto da Il Manifesto – a soli 17 anni. Nel 1930 si è sposata e ha avuto due figli, poi si è separata dal marito Cesare.
Una donna che non seguiva le regole del tempo, una donna da tenere lontana dalla società. Che si ribellava a tutto. Anche all’ex marito.
Viene descritta come una che non aveva paura di essere ciò che si sentiva di essere, che non stava con le mani in mano, che non era passiva di fronte alle ingiustizie e agli eventi. Lo ha fatto diverse volte, di mettersi di traverso nelle situazioni, lo ha fatto per tante ragioni, ma non si è lasciata fermare. Mai.
Una vita breve la sua, difficile, segnata dai ricoveri ma anche dal confino: infatti era stata mandata alcuni anni lontano. Salvo, poi, fare rientro a Roma ed essere lì in occasione del rastrellamento del ghetto. E, probabilmente, c’era anche lei alla testa di un gruppo che il 9 settembre del 1943, ha assaltato delle armerie. Perché Elena passiva non lo era per nulla: lei reagiva alla vita, agli eventi.
16 ottobre 1943, Elena Di Porto e il rastrellamento del ghetto a Roma
A raccontare quella mattina del 16 ottobre 1943 anche una puntata del podcast La razzia – cinque storie del Ghetto di Roma de Il Sole 24 ore. L’episodio racconta proprio di Elena Di Porto e di come non sia stata ascoltata.
Lei, a quanto pare, sapeva quello che avrebbero fatto i nazisti e la sua famiglia era stata messa al sicuro, questo però non bastava: ha tentato anche di avvisare gli altri, ma non è servito a nulla. Nessuno le ha creduto.
Poi la mattina del rastrellamento Elena era lì e, mentre guardava la scena, ha visto i nipoti chiamarla. Un attimo dopo si è offerta ai tedeschi ed è salita su un camion che l’ha portata via. Per sempre.
Non esistono documenti relativi al suo decesso, ma – come viene spiegato nel podcast – potrebbe essere morta appena arrivata ad Auschwitz.
Nella puntata è stato anche intervistato il nipote Marco di Porto che la racconta come: “Un’anticonformista, una ribelle”. Una donna avanti con i tempi: diretta, generosa, pronta ad aiutare, l’ha descritta il ricercatore Gaetano Petraglia che a lei ha dedicato il libro pubblicato da Giuntina.
La figura che è stata restituita a noi è potente, indimenticabile. Ritrae una donna forte, che non ha mai smesso di ribellarsi, che se n’è infischiata delle regole. E che ha combattuto, sino all’ultimo. La chiamavano matta, ma non lo era.