Mela o pera? Un medico francese, nel 1947, aveva chiaramente definito con un semplice esempio vegetale la differente distribuzione del tessuto adiposo nei maschi e nelle femmine. Nei primi la concentrazione adiposa si verifica soprattutto nell’area dell’addome, nelle seconde l’accumulo di cellule adipose contribuisce a formare curve meno spigolose, addolcendo fianchi e cosce.
Oggi, a distanza di anni da quell’osservazione, la scienza riprende in considerazione l’obesità e l’azione delle cellule adipose in base alla localizzazione nell’organismo. Fino al punto di indicare che non basterà solo l’indice di massa corporea, il cosiddetto BMI dalla sigla inglese Body Mass Index, per definire il quadro. Perché considerando solo questo dato si rischia di escludere molte persone che potrebbero avere giovamento da un approccio mirato. A fornire questa indicazione sono gli esperti dell’EASO (European Association for the Study of Obesity), in un documento pubblicato su Nature Medicine.
Perché andare oltre il BMI
Nonostante l’ampio riconoscimento dell‘obesità come una malattia multifattoriale, cronica, recidivante e non trasmissibile, caratterizzata da un accumulo anormale e/o eccessivo di grasso corporeo, la diagnosi di obesità è ancora in molti contesti basata esclusivamente sui valori di soglia del BMI e non riflette il ruolo della distribuzione e della funzione del tessuto adiposo nella gravità della malattia.
Il Gruppo di Lavoro EASO indica come fare un passo avanti. “Una novità importante del nostro schema riguarda la componente antropometrica della diagnosi. La base di questo cambiamento è il riconoscimento che il solo BMI è insufficiente come criterio diagnostico e che la distribuzione del grasso corporeo ha un effetto sostanziale sulla salute. Più specificamente, l’accumulo di grasso addominale è associato ad un aumento del rischio di sviluppare complicazioni cardiometaboliche ed è un determinante più forte dello sviluppo della malattia rispetto al BMI, anche in individui con un livello di BMI inferiore ai valori di soglia standard per la diagnosi di obesità (BMI di 30)”.
Sotto la lente d’ingrandimento non c’è solo la quantità totale di tessuto adiposo, ma anche e soprattutto la sua localizzazione. Insomma conta essere fatti a mela o a pera. Il nuovo schema chiarisce che l’accumulo di grasso addominale (viscerale) è un importante fattore di rischio per il deterioramento della salute, anche in persone con BMI basso e ancora prive di manifestazioni cliniche evidenti.
Il nuovo schema include persone con BMI basso (≥25–30 kg/m2) ma accumulo di grasso addominale aumentato e presenza di eventuali compromissioni mediche, funzionali o psicologiche nella definizione di obesità, riducendo quindi il rischio di sottotrattamento in questo particolare gruppo di pazienti rispetto all’attuale definizione di obesità basata sul BMI.