Aveva solo sei mesi Elżbieta Ficowska quando le fu fatto pagare il prezzo della “diversità” stabilito da qualcun altro, colpevole solo di vivere nel posto e nel tempo sbagliato. Perché lei era nata lì, in quello che i nazisti avevano trasformato in una prigione a cielo aperto per gli ebrei, nel ghetto di Varsavia.
Non era l'unica a pagare quella colpa Elżbieta, che a quei tempi era solo una neonata. Insieme a lei anche quelli che sono ricordati da tutti come i bambini del ghetto di Varsavia. Erano tanti, troppi. Erano più di 80000 quelli che durante la Seconda Guerra Mondiale restarono rinchiusi nel più grande carcere nazista istituito in Polonia.
I bambini del ghetto di Varsavia
Erano 500.000 persone rinchiuse all'interno del ghetto di Varsavia, tra queste 85000 i bambini. Qui era stata confinata per volere dei nazisti la popolazione ebraica della città e dei territori limitrofi. In pochi riuscirono a sopravvivere alle condizioni disarmanti e terribili in cui versava la loro vita. C'erano le malattie, c'era la fame, c'era la scarsa igiene e c'erano le deportazioni nei campi di sterminio di Treblinka e Majdanek.
In quello che è stato il più grande ghetto nazista del Terzo Reich in Polonia, istituito il 22 luglio del 1940 nel quartiere Nalewki, sono stati deportati e uccisi 300.000 ebrei di ogni età e sesso.
Se non venivano deportati, i bambini, dovevano lottare per la sopravvivenza. Le autorità naziste gli tolsero tutto, chiusero le scuole e i centri di aggregazione. L'educazione e la cultura non erano più accessibili. Moltissimi di loro, per aiutare le famiglie in difficoltà, scendevano in strada e lavoravano, come potevano. Altre volte mendicavano.
Nonostante gli aiuti clandestini per la distribuzione di cibo e dei beni primari, molti di loro non riuscirono a sopravvivere alle condizioni di vita del ghetto. Mancava il cibo e mancavano le cure, le condizioni igieniche erano disperate, soprattutto nelle parti più affollate di quella prigione. A tutto questo si aggiunse, per uno scherzo del destino, un'epidemia di tifo. I bambini morivano ogni giorno, di fame, di freddo e di tifo.
Solo pochi di loro riuscirono a salvarsi da quell'inferno. Tra questi quelli selezionati per i lavori forzati nei campi di concentramento, o quelli che riuscirono a nascondersi fuori dal ghetto e a fuggire. E tra questi c'era lei, Elżbieta Ficowska, la più piccola superstite di quei bambini. Fu salvata da Irena Sendler, infermiera e assistente sociale, nonché fautrice della Resistenza polacca che, insieme ad altri collaboratori, riuscì a far scappare 2000 bambini ebrei dal ghetto per portarli altrove, lontano da quel luogo di dolore.
Elżbieta Ficowska
Il destino di Elżbieta era probabilmente già segnato. Di una bambina così piccola, nata nel cuore del ghetto più grande del Paese, i nazisti non avrebbero saputo cosa fare. Irena Sendler invece lo sapeva: doveva portarla via da lì, e lo ha fatto.
Oggi Elżbieta Ficowska vive in Polonia. È un'attivista sociale, un'educatrice e una scrittrice di libri per bambini, ed è anche la voce della memoria dell'Olocausto in Polonia. Intervistata dal Corriere della Sera ha ricordato i momenti più dolori della sua storia:
«La signora che diventerà la mia mamma adottiva collaborava con Irena Sendler per proteggere i bambini in pericolo. Per portarmi via si affidò a suo figlio, il mio futuro fratellastro, che lavorava come muratore ed entrava spesso nel ghetto per raccogliere mattoni con il suo furgoncino. La mia vera madre rinunciò a me pur di salvarmi. Così mi sedarono, perché uno strillo sarebbe stato subito intercettato dagli aguzzini ai posti di controllo, e mi rinchiusero in una scatola di legno, nella quale erano stati praticati alcuni buchi per poter respirare. Insomma, in quel carico di mattoni c’ero anch’io, che uscivo per sempre dal ghetto di Varsavia».
Elżbieta ha raccontato che l'unico oggetto che la lega ancora alla sua vita precedente è un cucchiaio d'argento che riporta la data di nascita e il suo nome, o meglio quel nomignolo affettivo che la mamma aveva scelto per lei: Elzunia. Quel cucchiaio è stato il suo certificato di nascita e oggi è la sua eredità più preziosa.
E quella storia, fatta di tanto dolore e del coraggio di una madre che ha scelto di dire addio alla figlia, pur di salvarla, Elżbieta l'ha scoperta solo da adolescente, a soli 17 anni. Nonostante tutti le dicessero di non farlo, di non scavare in un passato così doloroso, per lei e per tutto il Paese.
Ma lo ha fatto con coraggio, forse lo stesso tramandato da sua madre. E di quella storia scoperta, oggi, ne ha fatto tesoro diventando lei stessa la voce della memoria.
La vita di ieri, la vita di oggi
Di sua madre e di suo padre Elżbieta sa poco, ma quanto basta per sapere che è a loro che deve quello che è stata la sua vita. I suoi genitori, Josel e Henia Rochman, non ce l'hanno fatta a sopravvivere: sua madre è morta nel campo di Poniatowa nel 1943, insieme a tutti gli altri prigionieri. Suo padre, invece, all'Umschlagplatz di Varsavia, ucciso da diversi colpi di pistola su un binario per essersi rifiutato di salire in macchina.
A prendersi cura di lei è stata Stanisława Bussoldowa, sua madre adottiva, amica e collaboratrice di Irena Sendler. Con lei è cresciuta, è stata battezzata con rito cattolico e si è laureata presso la Facoltà di Psicologia e Pedagogia dell'Università di Varsavia.
La bambina più piccola del ghetto di Varsavia, quella salvata dai fautori della Resistenza polacca, ora è una donna di 79 anni. È diventata un'attivista sociale e dal 2002 al 2006 è stata Presidente dell’Associazione dei Bambini della Shoah. Al suo fianco, in tutti questi anni, l'uomo che ha sposato, lo scrittore polacco Jerzy Ficowski, anche lui membro della Resistenza polacca dell’Armia Krajowa, AK.
Sempre al Corriere della Sera la donna ha raccontato che è stato suo marito la luce che illuminato il buio profondo dei suoi giorni più tristi. E insieme a lui, in questi anni, è stata in prima fila per difendere i diritti umani delle persone e della libertà. Ma il suo più grande pensiero, oggi e per sempre, è rivolto ai genitori, i fautori del gesto più coraggioso di sempre: dire addio alla loro bambina, per salvarle la vita.