Valentina Pitzalis, l’incredibile forza di un sorriso

«Sono sopravvissuta. Mi hanno fatto sentire in colpa. Ma io non ho mai perso il sorriso». La nostra Irene Vella ha intervistato una donna molto speciale

Pubblicato: 17 Giugno 2021 12:58

Foto di Irene Vella

Irene Vella

Giornalista, Storyteller, Writer e Speaker

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

«Io nel mio piccolo, con tutta l’umiltà del mondo, racconto la mia storia, perché nessuno faccia l’errore che ho fatto io». L’errore che ha fatto Valentina Pitzalis, nata a Cagliari il 13 agosto 1983, è stata sottovalutare la pericolosità del suo ex marito. È stata non cogliere i campanelli d’allarme di un rapporto tossico, che l’hanno portata a essere invalida. Il 17 aprile 2011 Manuel Piredda, il suo ex, le ha dato fuoco. Lei si è salvata per miracolo ma le hanno dovuto amputare il naso, un orecchio, l’avambraccio e la mano, nonché sottoporla a svariati interventi di asportazione completa della pelle e in seguito di ricostruzione e correzione delle cicatrici per ricostruirle la bocca. Ma nonostante il dolore, nonostante tutto, Valentina Pitzalis è una di quelle donne che dopo una caduta si rialza. E torna a sorridere, più forte che mai. «Ho passato sei mesi di ospedale, al Sant’Annunziata di Sassari che è l’unico in Sardegna ad avere il centro grandi ustionati, con un’equipe meravigliosa. Mi hanno salvata sia la vita che l’animo».

La storia di Valentina e del suo aguzzino

Valentina e Manuel si conoscono, si innamorano, convolano a nozze nel marzo 2006. «La persona che avevo sposato e si era presentava in modo meraviglioso, piena di attenzioni, una volta sposati cambia – racconta Valentina nell’intervista live a Irene Vella – Io sono diventata una sua proprietà. Cambia il suo atteggiamento, viene a meno il rispetto. Hanno preso il sopravvento il possesso, l’ossessione, la gelosia morbosa. Ma lì è stato il mio grande errore: non ho saputo riconoscere i campanelli di allarme, i segnali. Era il 2006. All’epoca si parlava solo di violenza di tipo fisico, che è facile riconoscere, perché lascia i segni. La violenza psicologica è subdola e io non avevo gli strumenti per riconoscerla. Io amavo e assecondavo le sue follie. Io lo rassicuravo, gli spiegavo che poteva fidarsi di me. E nel frattempo non avevo più una vita sociale, non potevo più lavorare, dovevo stare con lui 24 ore su 24, mi privavo di ogni cosa per dimostrargli che il mio amore era reale e profondo, puro. Ho sbagliato tutto. Questi sono manipolatori affettivi. C’è un ciclo della violenza che si ripete, ed è sempre quello. Io dopo che ho subìto quello che ho subìto, ho iniziato a capire e realizzare cos’era successo. Oggi porto la mia testimonianza per combattere la violenza di genere».

La paura del giudizio degli altri

«Purtroppo la mia famiglia aveva qualche sentore ma io non gli avevo mai raccontato tutto quello che succedeva. Ricordiamoci che un manipolatore affettivo per prima cosa ti isola dalle persone a cui vuoi bene, famiglia e amici. Ero stata io a dargli il mio telefono per dimostrargli che non avevo nulla da nascondere. Ogni chiamata che ricevevo era filtrata da lui, lui era sempre accanto. Non potevo più parlare con i miei genitori o con mia sorella da sola. Arrivi a sopportare cose allucinanti e pensi che nessuno ti crederà o che penseranno che sei un’idiota. Noi donne purtroppo abbiamo questa sindrome da crocerossina che ci porta a voler salvare, ad annullarci. Ma io ero la moglie, non la psichiatra o la psicologa. E non potevo aiutarlo, non ero io che potevo farlo».

Non bisogna arrivare alle botte per capire che è violenza

«Lui non mi aveva mai picchiata. Nel corso dei litigi verbali che ci sono stati tra noi più volte mi ha detto: “O con me o con nessun altro”. Ma non gli ho dato il giusto peso, non potevo credere che l’avrebbe fatto. Se avessi percepito che poteva farmi del male non lo avrei incontrato, quel 17 aprile 2011. Eravamo già separati da un anno. Lui mi aveva preso per sfinimento, mi ha attirato a casa sua con la scusa di un documento per il divorzio. Dopo avergli dato il documento mi ha detto: “Dai Vale, rimani altri cinque minuti”. Cercava sempre di trattenermi. In quel momento mi sono girata e mi ha gettato del liquido infiammabile addosso. Mi sono spaventata e ancora di più quando ho sentito l’odore. Ero nel panico e ho capito che sarebbe successo qualcosa di brutto. E mi ha dato fuoco».

Il peso delle parole

«Alcune volte i media sbagliano il modo in cui danno questo tipo di notizie. Purtroppo sembra che la donna abbia innescato qualche reazione nel povero uomo, lo ha innervosito a tal punto che lui fa quello che fa. Questo tipo di comunicazione è aberrante. Nel mio caso non c’è stata nessuna lite, nessun raptus. Lui ha premeditato tutto. Io sono stata un minuto, un minuto e mezzo, da lui. Dopo avermi buttato il liquido gli ho chiesto: “Cosa stai facendo, sei matto?”. Lui si è avvicinato alla mia faccia dicendomi: “Adesso lo vedi” e mi ha dato fuoco. È stato atroce. Non ho mai perso i sensi, sono rimasta vigile per tutto il tempo. Ho bruciato per infiniti 20 minuti. Mi sono buttata a terra e ho iniziato a battere i piedi. Per fortuna i vicini mi hanno sentita e hanno chiamato i soccorsi. Il fuoco mi è partito dalla mano sinistra che ora non ho più. Perché oltre al mio aspetto la cosa più grave e difficile da accettare è che sono invalida al 100%. Mi ha tolto l’autosufficienza ma non il sorriso e la libertà. Miracolosamente sono sopravvissuta. E se sono sopravvissuta è perché sono una gran rompipalle e lassù non mi hanno voluta».

Valentina Pitzalis prima dell’incidente (foto Instagram)