Nato da radici italiane ma cresciuto a Londra, Giuseppe Parrinello è un artista e designer che ha fatto della contaminazione il cuore del suo linguaggio. Le sue opere nascono da un dialogo continuo tra passato e presente, dove l’eco dell’antichità classica si mescola a forme domestiche e funzionali. La sua estetica è un equilibrio sottile tra artigianato e design, tra oggetto d’uso e oggetto da contemplare: non a caso, lui stesso descrive il suo lavoro come “un matrimonio di stili”.
Ogni pezzo viene prodotto a mano in edizione limitata, e porta con sé un’impronta unica, quasi rituale. Non si tratta di semplici oggetti: sono frammenti di memoria, manufatti che sembrano provenire da un tempo sospeso.
Nel corso degli anni Giuseppe ha collaborato con nomi come Penhaligon’s, Christie’s, Aesop e Gergei Erdei, portando la sua visione poetica all’interno di contesti diversi, sempre fedele a un’estetica che rielabora il classico senza mai banalizzarlo. Nelle sue ceramiche si intravedono le forme dei templi greci, la sensualità delle decorazioni romane, ma anche lo spirito delle “cose di casa” cariche di simbolismo e storia. Un’arte che guarda indietro, ma parla con una voce decisamente attuale.
Indice
L’eco dell’antichità nella ceramica contemporanea
La tua passione per l’arte classica sembra essere una delle principali fonti d’ispirazione per il tuo lavoro. Come si è sviluppato il tuo interesse per l’antichità, in particolare per l’arte romana e greca?
Il mio interesse per l’antichità si è sviluppato quasi istintivamente. Credo che crescere come figlio di immigrati ti metta in contatto, quasi per natura, con la storia e la cultura del tuo Paese di origine. In un certo senso, forse è un po’ un cliché, ma crescendo con un background italiano, sono stato inevitabilmente attratto dall’estetica greco-romana. C’è una sorta di eternità nell’equilibrio, nella proporzione e nella simbologia dell’arte classica che mi ha subito affascinato.

Ho avuto il primo contatto con la scultura e l’architettura classica fin da piccolo. Da bambini, passavamo le estati in Sicilia, da dove viene la mia famiglia, in una provincia vicino Agrigento. Questo significava che spesso ci trovavamo a passare per la Valle dei Templi andando verso il mare. Vedere quelle rovine antiche quasi ogni giorno, non come pezzi da museo ma come parte integrante del paesaggio, ha reso l’antichità qualcosa di vivo e familiare. Credo che sia lì che è nata la mia visione romantica del mondo classico.
Un’altra influenza precoce sono stati i grandi film epici degli anni ’50 e ’60: Cleopatra, Ben-Hur, Salomè, quelle interpretazioni altamente stilizzate e fantasiose del mondo antico. I costumi elaborati, le scenografie drammatiche, l’eyeliner forse un po’ discutibile… Ne ero completamente rapito. Per un certo periodo, ho persino sognato di diventare scenografo, solo per poter abitare quei passati immaginati.
Armonia tra forma e funzione

Quali aspetti dell’arte classica trovi ancora oggi rilevanti? E come li reinterpreti in un contesto contemporaneo?
Quello che continua a risuonare in me è l’ideale classico dell’armonia, tra forma e funzione, bellezza e utilità. C’è qualcosa di eterno nel modo in cui l’arte classica equilibra ornamento e struttura, e in come anche gli oggetti più decorativi avevano un senso di utilità. Come ceramista, sono attratto da quell’intersezione, dove l’estetica incontra l’uso quotidiano.
Spesso rielaboro elementi classici, che si tratti di un motivo mitologico, di una silhouette scultorea o del linguaggio ornamentale dell’antichità, attraverso una lente più moderna e funzionale. La mia eredità italiana gioca un ruolo importante in questo legame con il passato. Nelle mie opere, quei riferimenti riaffiorano non come repliche, ma come reinterpretazioni: frammenti del passato riformulati in oggetti contemporanei per la casa.
Ogni pezzo che realizzo è fatto a mano in edizione limitata, quindi nessuno è identico all’altro. Questa unicità richiama l’individualità degli artefatti antichi, dove il tempo, il materiale e l’uso conferivano a ogni oggetto un carattere unico. Cerco di riflettere quella qualità, creando pezzi che sembrano senza tempo ma anche profondamente attuali.
Un legame intimo con le radici italiane

Poiché la tua ispirazione è profondamente radicata nella storia dell’arte italiana, come descriveresti il tuo rapporto con il Paese?
L’Italia è come una seconda casa per la mia immaginazione. Crescendo come figlio di immigrati, sono stato educato all’interno del tessuto della diaspora italiana, dove tradizioni, dialetti, e un profondo senso di comunità erano sempre presenti. Quell’eredità culturale ha plasmato gran parte della mia identità, anche se non sono cresciuto in Italia.
Emotivamente, sento un forte legame con il Paese, soprattutto perché molti dei miei ricordi più significativi sono legati alle estati passate lì, con cugini e famiglia allargata. C’è un’intimità particolare che nasce da quelle esperienze condivise da bambini, dove il paesaggio, i rituali e persino i dettagli più banali della vita quotidiana avevano un significato profondo.
Detto questo, l’Italia che conosco è quella filtrata attraverso i racconti e i ricordi dei miei genitori, che emigrarono negli anni ’70. In molti modi, la mia comprensione del Paese è modellata dalla loro nostalgia, da una versione dell’Italia sospesa nel tempo. Quindi, anche se mi sento profondamente connesso, è spesso attraverso una lente ereditaria, più che da un’esperienza del tutto personale. Quella distanza conferisce al mio rapporto con l’Italia una sorta di romanticismo, e credo che questo si rifletta naturalmente nel mio lavoro.
Penso che questo legame con le radici sia una delle ragioni per cui mi piace creare opere che sembrino portare con sé un senso di anima o di storia, pezzi che sembrano quasi totemici. Da bambino, eravamo circondati da oggetti che avevano viaggiato dal nostro Paese d’origine, cose che non erano solo funzionali, ma profondamente simboliche. Contenevano storie, memoria, una presenza silenziosa che andava oltre l’uso quotidiano.
Cerco di canalizzare quella stessa energia nei miei lavori in ceramica. Voglio che ogni pezzo sembri poter esistere attraverso il tempo, come una reliquia contemporanea. Qualcosa che si può usare, certo, ma anche sentire. Oggetti che suggeriscono una discendenza, o l’eco di un rituale dimenticato. È quella combinazione di familiarità e mistero, funzione e sentimento, che trovo più affascinante da creare.
Arte, design e narrazione

Come vedi l’interazione tra arte e design nel tuo lavoro? Qual è la differenza tra creare un’opera d’arte e un oggetto funzionale?
Spesso descrivo il mio lavoro come un matrimonio di stili che vive nella zona grigia tra oggetto d’arte e design funzionale. È proprio quello spazio intermedio che mi affascina, il punto in cui un oggetto può essere sia usato che venerato, dove la sua presenza è tanto importante quanto la sua utilità.
Proprio come gli oggetti quotidiani che oggi vediamo esposti nei musei – vasi cerimoniali, stoviglie ornate o frammenti decorativi – molti di questi pezzi erano parte della vita di tutti i giorni. Col tempo, sono stati elevati, trasformati dalla storia e dal contesto in oggetti di reverenza culturale. Mi attrae l’idea che qualcosa di funzionale possa anche avere un significato profondo, e che la bellezza non debba essere separata dall’uso.
Nel mio lavoro ceramico cerco di creare pezzi che vivano in quella stessa dualità. Sono fatti per essere esposti, certo, ma anche per essere usati. Li immagino come oggetti che si tirano fuori per le occasioni speciali, “da usare per le feste”, come si dice. Sono pensati per arricchire i rituali, come i pasti condivisi o le celebrazioni, dove la loro presenza aggiunge un livello di cerimonia o intimità.

La zona grigia è dove forma e funzione incontrano la narrazione. I miei pezzi non sono puramente scultorei, né rigorosamente utilitari: abitano uno spazio dove artigianato, design ed emozione convergono. E credo che sia proprio in quella ambiguità che trovano la loro anima.