Stuprata a 11 anni mentre rientra a casa: lui era libero, lei non lo sarà mai più

Undicenne violentata nell’androne di un palazzo a Mestre. L’aggressore, un 45enne con precedenti, era ritenuto non socialmente pericoloso

Foto di Irene Vella

Irene Vella

Giornalista, Storyteller, Writer e Speaker

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Pubblicato: 15 Aprile 2025 12:12

Mestre, pieno giorno, una ragazzina di undici anni esce dalla palestra e si incammina verso casa. È sola, ma manca poco: pochi minuti, pochi metri, eppure non ci arriverà mai da sola, perché un uomo, un estraneo, la segue. Lei se ne accorge, è spaventata ma lucida: prende il telefono e chiama un’amica, chiede aiuto, poi il buio. Quell’uomo la raggiunge, la trascina nell’androne di un palazzo e la violenta, un’aggressione brutale, feroce, che segnerà per sempre il corpo e l’anima di questa bambina.

L’aggressore ha un nome: Massimiliano Mulas, 45 anni, sardo, con un passato segnato da episodi inquietanti e violenti, non è solo cronaca, non è solo un fatto di sangue, è  un pugno nello stomaco. Un urlo che non può restare intrappolato nella gola di persone che hanno dimenticato il significato di protezione, è il pianto di una bambina di undici anni, a Mestre, in un giorno qualunque, mentre tornava dalla palestra. E invece no. Quel giorno non sarà mai più qualunque, quel giorno sarà il confine tra il prima e il dopo, il prima fatto di sogni, di elastici nei capelli, di uscite con le amiche. Il dopo fatto di terrore, silenzi, terapia, ricostruzioni infinite. Non doveva accadere, non così, non a lei, non a nessuna.

Lei, che aveva capito tutto, che  si era accorta dell’uomo che la seguiva, che aveva avuto il coraggio e la lucidità di chiamare un’amica, che ha lottato, ha urlato, ha resistito, ma non è bastato. Perché contro un mostro non bastano gli occhi spalancati e la voce rotta, contro un mostro serve lo Stato, serve la giustizia, serve la certezza della pena. E invece Massimiliano Mulas, 45 anni, uno con precedenti da film horror, chiamiamo le cose con il loro nome, era libero, libero di camminare per le strade come se niente fosse, libero dopo aver decapitato un cane e averne infilato la testa in un fustino di detersivo, dopo aver tentato stupri, minacciato con coltelli, seminato paura ovunque. Libero, mentre lei, undici anni, ora non sarà più libera nemmeno di attraversare il pianerottolo senza tremare.

È fallito il sistema, abbiamo  fallito tutti noi, che dovremmo indignarci, urlare, pretendere che queste storie non si ripetano, perché la verità è che quella bambina è figlia nostra, figlia di una società che si è distratta, che ha abbassato la guardia, che ha preferito non vedere.

E oggi? Oggi non possiamo più voltarci dall’altra parte, non c’è redenzione per chi semina il male, non c’è comprensione per chi violenta l’innocenza, non c’è scusa che regga.
Non è cattiveria, è buon senso, perché qui non si tratta di essere disumani, non si tratta di essere cattivi o vendicativi, non c’entra l’essere giudici, avvocati, esperti di legge, qui si tratta di guardare in faccia la realtà e avere il coraggio di dire che ci sono persone che non devono più camminare sulla stessa terra delle altre. Massimiliano Mulas, a 19 anni ha decapitato un cane, non è un errore, non è una bravata: è un segnale preciso. Ha messo quella testa in un fustino e l’ha spedita a una ragazza, come minaccia, non c’era un presunto movente (nessun movente può giustificare l’orrore), non c’era un’estorsione vera, c’era solo crudeltà, crudele per il gusto di esserlo.

Poi tentativi di stupro, aggressioni, coltelli, e ogni volta una pena, ogni volta una libertà restituita troppo presto, ogni volta una nuova occasione per fare del male. E allora no, non è disumano affermare che certe persone non siano recuperabili, è disumano fingere il contrario, è disumano lasciarle libere in nome di una speranza che non esiste. Non si tratta di giustizia, si tratta di protezione, si tratta di dire, ad alta voce, che chi ha distrutto vite, corpi, anime, non può avere il diritto di rifarlo. Quello non è un uomo. È un mostro, e deve restare dove i mostri vanno messi: lontani, chiusi, senza possibilità di reiterare l’orrore. Perché lei, quella bambina, e tutte quelle che verranno, meritano giustizia, e noi gliela dobbiamo.