La forza di mamma Marina: giustizia è fatta, Marco riposa in pace.

È il 17 maggio 2015 quando Marco Vannini viene condannato a morte dalla condotta omissiva della famiglia Ciontoli. Dopo 6 anni arriva la giustizia

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Irene Vella

Giornalista televisiva

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Sono passati sei anni da quel 17 maggio 2015, data che per la famiglia Vannini è diventata un punto di non ritorno: quello del loro unico e splendido figlio, Marco, che per la condotta omissiva e reticente di tutta la famiglia Ciontoli, è stato condannato a morte, proprio da chi avrebbe dovuto proteggerlo. Quella maledetta sera Marco è a cena a casa della fidanzata, con tutta la famiglia di lei, mentre è nella vasca a fare il bagno entra il padre di Martina, Antonio Ciontoli, che gli mostra due pistole, da una delle quali parte il colpo che lo ferisce, solo apparentemente in un punto non vitale. A questo punto inizia il teatro dell’assurdo che porterà alla morte un ragazzo che avrebbe avuto tutta una vita davanti, tutta la famiglia concorde e coesa aspetta venti minuti prima di chiamare l’ambulanza, saranno proprio le registrazioni di quelle telefonate a rivelare come l’intento dei Ciontoli fosse quello di proteggersi gli uni con gli altri, per non perdere i privilegi derivanti dalla posizione del padre, sottufficiale della Marina Militare distaccato ai servizi segreti. Prevale quindi la paura di una reputazione infangata sulla vita di un ventenne.

In nessuna delle due chiamate al 118 infatti i Ciontoli avvertono che Marco è stato ferito con un’arma da fuoco. Anzi mentono. Prima Antonio, spiegando a una infermiera che il ragazzo si è ferito con una punta del pettine. Poi la moglie Maria Pizzillo che, nell’avvisare i genitori del ricovero in ospedale del figlio, afferma: «È caduto dalle scale ma non dovete preoccuparvi». Antonio Ciontoli poi giustificherà la sua bugia con la paura di perdere il lavoro. A noi rimangono solo gli audio delle due telefonate al 118 e in sottofondo le urla straziate dal dolore di Marco che chiede aiuto e le intercettazioni ambientali avvenute in caserma dove Martina Ciontoli afferma «era destino che dovesse morire» apparendo fredda e distaccata, eppure il suo fidanzato è appena morto in casa sua, e a sparare (per errore o meno) è stato proprio suo padre.

«La stanno facendo troppo lunga, che esagerazione», dice la ragazza, che subito dopo ricorda ad alta voce che due giorni dopo avrebbe dovuto sostenere un esame, ribadendo poco dopo «e mo’ basta è andata così». Vannini morirà dopo quasi quattro ore di agonia. I medici sono certi che se fosse stato trasportato in emergenza subito dopo lo sparo, ora sarebbe vivo. Ed è proprio per questo che la Cassazione il 3 maggio del 2021 ha confermato le condanne per tutta la famiglia, 14 anni ad Antonio Ciontoli accusato di omicidio volontario, e a nove anni e quattro mesi per la moglie, Maria Pizzillo e ai due figli Federico e Martina Ciontoli.

Finalmente dopo sei anni è arrivata la parola fine dal punto di vista giuridico su questa storia, su questa assurda tragedia, ma c’è una figura che più di tutte merita di essere raccontata, per come sia stata d’esempio, per come non abbia mai mollato di un centimetro la sua posizione, ed è la mamma di Marco. Marina Conte ha tenuto botta anche quando la sentenza di appello riduceva la pena ad Antonio Ciontoli a cinque anni di carcere, derubricando l’omicidio in colposo, anziché volontario e lei rischiava di prendere la stessa pena dell’assassino di suo figlio per oltraggio alla corte dopo aver urlato: «Vergogna, loro sono liberi, anzi sono sicura che stanno festeggiando, mentre mio figlio è morto a vent’anni. Dentro quell’aula c’è scritto che la giustizia è uguale per tutti, ma non è vero». Sono stati anni difficili, anni in cui i genitori di Marco si sono dovuti sorreggere l’uno con l’altra per non cadere. «Mi succede spesso di scrivere ancora 2015 – dice Marina – perché il tempo per noi s’è fermato. Marco non c’è più. Non facciamo più progetti con Valerio. Da quando Marco è stato ucciso sopravviviamo».

La speranza si riaccende il 7 febbraio del 2020 quando la Corte di Cassazione annulla la decisione della Corte d’Appello e condanna tutta la famiglia Ciontoli perché Marco muore dopo quasi quattro ore di agonia. I medici sono certi che se fosse stato trasportato in emergenza subito dopo lo sparo, ora sarebbe vivo. Allora comincia il teatrino della famiglia che avrebbe dovuto avere il peso più grande sulla coscienza, quella della morte di un ragazzo che poteva essere loro figlio, lasciato a dissanguarsi sul pavimento, cercando anche di non farlo urlare troppo. Accade che vengano rilasciate interviste in esclusiva solo a chi li lascerà difendersi e spiegare il loro punto di vista, perché ormai è chiaro che tutta l’opinione pubblica è contro di loro. E allora ecco un Antonio contrito che tra le lacrime (di convenienza?) dice di non essersi accorto della gravità del colpo esploso, o le lettere di Martina e Federico inviate al TG2 prima della sentenza definitiva, in cui la prima afferma: «Marco moriva ed io non avevo capito niente», e il secondo: «Marina e Valerio erano per me una seconda famiglia». Viene da chiedersi allora come mai in tutti questi anni non siano mai andati in ginocchio a chiedere scusa, a bussare alla loro porta piangendo come dei bambini, perché in tutto questo tempo non è mai successo?

La risposta è semplice, perché hanno sempre pensato di riuscire a farla franca, vuoi per la posizione del padre, vuoi perché come ha sottolineato il procuratore generale: «L’unico a poter mettere in crisi la ricostruzione di Antonio Ciontoli e riferire cosa accadde quella notte era proprio Marco Vannini», vuoi perché si sono raccontati talmente tante volte la loro versione dei fatti da crederci, il finale è sempre lo stesso. Hanno sperato che, mancando la “pistola fumante”, venisse meno anche la loro colpa. Ma come ha affermato Marina alla lettura della sentenza: «La giustizia esiste, bisogna solo lottare per ottenerla», e questa donna, diventata il simbolo delle mamme coraggio ha lottato con tutta sé stessa, come se Marco fosse accanto a lei, come se in qualche modo riuscisse a sostenerla anche con la sua assenza, come la promessa delle promesse fatta a questo figlio così tanto amato, che sarebbe riuscita ad ottenere verità e giustizia per lui, dimostrando che a volte le urla di un ragazzo morto risuonano nelle orecchie dei vivi come la più grande delle accuse. Perché questa è la verità.

Chiunque abbia ascoltato i nastri delle telefonate fatte al 118 non potrà mai dimenticare la disperazione, il dolore e la vita che esce da Marco, quel chiamare la sua mamma, sapendo che solo lei in quel momento avrebbe potuto salvarlo, sapendo che forse non ci sarebbe stato un ritorno, il suo ultimo pensiero è andato a lei, a Marina, la donna che la vita gliel’aveva data. E come un cerchio che si chiude la mamma per sei anni si è battuta affinché chi lo aveva ucciso pagasse, e per favore non tiriamo più in ballo lo pseudo martiro mediatico a cui la famiglia Ciontoli sarebbe stata sottoposta, perché nessuno di loro sarebbe stato condannato se avesse deciso in piena coscienza di fare quello che era più giusto per Marco: salvargli la vita. Si chiamano responsabilità, quelle che nessuno di loro si è assunto perché “presero parte alla gestione delle conseguenze dell’incidente: si informarono su quanto accaduto, recuperarono la pistola e provvidero a riporla in un luogo sicuro, rinvennero il bossolo, eliminarono le macchie di sangue con strofinacci e successivamente composero una prima volta il numero telefonico di chiamata dei soccorsi”. Riposa in pace Marco. Adesso giustizia è stata fatta.