Diane Arbus, la fotografa della diversità alla ricerca di una realtà più tollerante

Spingersi oltre, guardare sempre un po' più in là: la storia di Diane Arbus è il connubio perfetto fra feroce curiosità e fame di realtà alternative

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Redazione

DiLei è il magazine femminile di Italiaonline lanciato a febbraio 2013, che parla a tutte le donne con occhi al 100% femminili.

Definire Diane Arbus è estremamente complicato. Se da una parte è corretto attribuirle il soprannome di fotografa della diversità, dall’altra parte questo appellativo risulta essere limitante, perché la ingabbierebbe all’interno di uno schema da cui lei cercava di fuggire.

Con la sua macchina fotografica, la Arbus ha cercato di trasmettere messaggi che ancora oggi possono risultare disturbanti, ma che hanno tutti lo stesso significato: non esiste una sola realtà, ogni aspetto della nostra vita (sia esso esteriore o interiore) è filtrato da giudizi soggettivi e da esperienze individuali che possono portare a vedere e interpretare le cose in modi imprevedibili.

Dalla ricchezza ai primi passi nella fotografia

L’esistenza stessa della Arbus è metafora di quanto niente sia mai come sembra. Nata il 14 marzo 1923, Diane Nemerov ha apparentemente un destino già scritto, perfettamente infiocchettato: essendo figlia di David Nemerov, proprietario della catena di grandi magazzini Russek’s a New York, è ricca e non le sarebbe mai mancato nulla. La madre Gertrude, oltre a coccolare i suoi figli, si batte per istruirli al meglio cercando per altro di trasmettere loro la passione per l’arte: lei e il marito, infatti, sono appassionati di pittura.

Diane, però, mostra sin dall’inizio una certa curiosità verso tutto ciò che va oltre l’ambiente ricco e borghese che i suoi usano frequentare: inizia a parlare con i commessi di Russek’s, ne esplora la vita e le abitudini, vorace d’informazioni. È fra i dipendenti del padre che, a soli 14 anni, troverà il suo primo grande amore, Allan Arbus. Allan è un fotografo dilettante con una passione smodata per lo spettacolo, ma rimane incantato da quella ragazza esile e dai grandi occhi chiari, al punto da finire per ricambiare il suo amore.

Uno shooting di Diane e Allan Arbus

I due si frequentano in segreto, ma vengono scoperti dai genitori di Diane che cercano di opporsi e di convincere la figlia a pensare a partiti più “adatti”. Diane, però, non ne vuole sapere e appena compiuti i 18 anni sposa il suo Allan. Nonostante la maretta, i genitori di Diane restano vicini alla figlia e il padre cerca di mettere Allan nelle condizioni di fare qualcosa di più rispetto al semplice commesso: unendo lo spirito artistico della ragazza alla passione del genero appena acquisito, l’uomo commissiona un servizio fotografico pubblicitario per la sua catena.

È l’inizio di un cammino condiviso che si interrompe solo per via della Seconda Guerra Mondiale e che, nel 1946, li porterà ad aprire lo studio Diane & Allan Arbus. All’inizio, Diane si limita a fare l’assistente del marito, ma poi qualcosa comincia a bruciarle dentro: in piena autonomia inizia a studiare manuali su manuali di fotografia e frequentare gli studi di fotografi e fotografe affermate, fra cui Aleksej Česlavovič Brodovič, Art Direcor di Harper’s Bazaar, Berenice Abbott e Lisette Model.

Secondo una sua stessa dichiarazione, è proprio con la Model che la scintilla che era scattata per la fotografia divampò e divenne un incendio ingestibile: grazie ai suoi suggerimenti, Diane guarda oltre, abbandona il mondo della moda, supera la sua timidezza e comincia a fotografare i soggetti che la colpiscono. Frattanto, Allan si avvicina di più al mondo dello spettacolo e Diane non riesce più a condividere i suoi interessi: mentre l’uomo insegue le luci della ribalta e l’edulcorazione dello spettacolo, Diane sente sempre più il bisogno di indagare la realtà nelle sue più diverse sfaccettature.

I soggetti di Diane e le sue emozioni

Divenuta ufficialmente una fotografa, Diane inizia a scandagliare il concetto di normalità. Più lo esplora, più sente che qualcosa non le torna e che non è possibile per lei, in alcun modo, farlo combaciare con nessun piano dell’esistenza. Questa sensazione di disadattamento si fa più spinta quando, tra il 1957 e il 1960, frequenta in modo sempre più assiduo l’Hubert’s Museum, un cosiddetto freak show che contava sull’esibizione di personaggi bizzarri, strani o volutamente resi grotteschi.

Più Diane immortala i cosiddetti freak, più viene assorbita da riflessioni esistenziali che partono dalla banalità della vanità e si spingono verso i più ampi concetti di tolleranza e inclusione. Inizia a soffrire di crisi depressive e divorzia dal marito, cercando altrove qualcuno in grado di guardare il mondo in modo simile al suo. Si avvicina, per un breve periodo, al regista e produttore Emile De Antonio, che la accompagna a scattare al Club ’82, situato nella lower Manhattan.

Uno dei soggetti fotografati da Diane Arbus

All’interno del Club, Diane si interfaccerà con delle persone il cui modo di vivere e le problematiche le erano prima ignote: in un ancora troppo aspro contesto sociale, il Club dava rifugio e riparo a tutti coloro che erano palesemente e impunemente emarginati, dalle persone colpite da disabilità a chi cercava di difendere la propria identità di genere e il proprio orientamento sessuale. A questo punto, per la Arbus le fotografie non sono più semplici ritratti: sono un invito ad aprirsi e comprendere.

La strada che sceglie è cruda e per certi versi brutale: il suo obiettivo diventa creare una dissonanza tra il soggetto ritratto, generalmente mostrato perfettamente a suo agio (tanto che con molti dei soggetti la fotografa strinse legami profondi e duraturi) e l’osservatore-giudicante, con lo scopo di metterlo a disagio tanto da muovere qualcosa, da penetrare al punto da scardinare certezze e aprire le porte dell’accettazione.

Gli ultimi anni e il suicidio

Più Diane si dibatte per dipingere un quadro molto diverso da quello che la società tende a propinare ai suoi contemporanei, più molti sguardi le si incollano addosso. Le viene affibbiata l’etichetta di fotografa di mostri e questo non solo non le piace, ma le causa notevole sofferenza, dato che il suo intento è esattamente quello di trascendere dall’apparenza e di trasformare in usuale l’inusuale. Una sua mostra al MOMA viene accolta talmente male da indurre il museo a rimuovere le foto prima del previsto, dato che venivano ciclicamente ricoperte di sputi.

Intanto, le crisi depressive di Diane aumentano. Nel 1970 confida alla sua maestra Lisette Model di non essere sicura di ciò che sta facendo e di aver perso il controllo. Anche i suoi ultimi soggetti, una serie di prostitute all’interno di bordelli sadomaso, non aiuta: ha a che fare con orrori molto profondi, che la segnano ancora di più. In più, per un’epatite, è costretta a rinunciare agli antidepressivi. Schiacciata da questo insieme di situazioni e dal crescente carico di responsabilità e aspettative che la circondano, il 26 luglio 1971 si suicida, ingerendo barbiturici e tagliandosi i polsi. Verrà consacrata ufficialmente dopo la sua morte, divenendo di ispirazione e passando alla storia.

Le parole di Diane Arbus sulla sua statua