Lo aveva detto a marzo, quando per una multa – fermata con la patente scaduta – e il sequestro del mezzo, era diventata la centenaria più famosa e simpatica d’Italia. “Se mi togliete la macchina muoio”. Ci aveva anche provato, a comprarsi una vespa, ma a 103 anni compiuti chi gliela vendeva. Per un po’ è andata in bicicletta, poi il freddo e l’inverno l’hanno fermata e lei, Giuseppina Molinari, classe 1920, ha fatto quello che aveva detto: se n’è andata. Testarda e determinata fino all’ultimo.
Non era un carattere facile la zia Giose, ma era di una simpatia e di una vitalità travolgenti. Conquistava e litigava con tutti, non si è mai sposata né ha mai avuto figli, ma aveva una schiera di nipoti e pronipoti da far invidia ad una regina.
Io me la ricordo da sempre così, quando sono nata aveva più di 50 anni ma era identica. Viveva nella stessa casa a Vigarano Pieve, insieme ad altri due fratelli “signorini” come lei, cambiava macchina ogni due anni, non le mandava a dire a nessuno e ogni tanto finiva sul giornale: perché a 90 anni aggiustava da sola il tetto con la motosega o perché appunto, veniva fermata a 103 con la patente scaduta.
Per me era sempre una festa andare dagli zii a Ferrara, tra i cappelletti fatti in casa, il “prosiutto” buono, le galline che razzolavano in giardino, la salama da sugo e i turtlin dolci con la marmellata. L’odore buono della sua casa non lo scorderò mai.
Sono cresciuta con i racconti della sua adolescenza e giovinezza, tra tre fratelli e due sorelle, in quell’Emilia rurale a cavallo tra le due guerre mondiali, in cui le donne si sposavano, di solito con il primo uomo che si proponeva, e lavoravano nei campi o in fabbrica. E le famiglie spesso emigravano al nord, come fece mio nonno.
Lei era diversa: aveva capito subito che con un marito, all’epoca, avrebbe dovuto abbassare la testa e ha scelto la libertà. Girava in moto, faceva mille lavori, dalla campagna al banco di frutta al mercato, allo zuccherificio, era una imprenditrice e femminista ante litteram.
Con mio nonno, suo fratello, litigava ogni due per tre, come con parecchi altri. Perché era “fumantina”, spesso parlava più del dovuto, ma io me la ricordo con il cuore più grande di tutti. Come quando, da piccolina andammo a comprare le scarpe a Ferrara. Le volevo rosse, mamma me le comprò blu. Piansi talmente tanto che zia tornò al negozio per comprarmele anche del colore che volevo io.
Ho avuto la fortuna di passare con lei un’estate intera, nel 2000: finita l’università e in attesa di trovare lavoro, feci un master a Rovigo e i week end li trascorrevo a casa sua. Ho dei ricordi bellissimi: andavamo al mare ai Lidi ferraresi, mentre io prendevo il sole contrattava il pesce con i pescatori, che cucinavamo la sera, scaldandoci al camino, perché anche a luglio vuoi mica prenderti i reumatismi? Ovviamente non mi faceva guidare perché non ero capace e solo lei – a 80 – sapeva farlo, e ovviamente mi riempiva di cibo perché così magra non avrei mai trovato marito. Dovunque andasse, la conoscevano tutti, portava risate e allegria.
Dopo quell’estate ci sentivamo ogni tanto al telefono, l’ultima è stata durante la pandemia, quando, già centenaria, si preoccupava di me e dei miei figli. Poi ha smesso di rispondere al telefono, non ci sentiva bene, e lei a Ferrara, io a Roma, il rapporto si è allentato. Le avevo promesso che sarei andata a trovarla con i bambini e non ho mantenuto la promessa. Non me lo perdonerò mai, perché lei lo avrebbe fatto: anche a 100 anni, anche con un lavoro e dei figli avrebbe preso il treno e sarebbe venuta. Come fece dieci anni fa, a più di 90, quando è morta mia nonna, sua cognata. Perché aveva un carattere e una volontà di ferro, e io le ho sempre invidiato entrambi.
Ti chiedo scusa, zia, e ti ringrazio, perché il tuo esempio, la tua vitalità non moriranno mai. Saranno sempre vivi nella memoria dei tuoi nipoti e pronipoti, in quella di tutte le persone che ti hanno conosciuta e voluto bene, in quella dei miei figli, a quali continuerò a parlare di te, della tua forza e della tua libertà e indipendenza, che hai conservato gelosamente fino alla fine. E quando, per forza di cose, ti sono venute a mancare, hai preferito togliere il disturbo.