Tumore alla mammella avanzato, cosa sono e come agiscono gli anticorpi coniugati

Terapie sempre più personalizzate nella cura del tumore al seno vengono messe a punto dai ricercatori: come funzionano gli anticorpi coniugati

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Federico Mereta

Giornalista Scientifico

Laureato in medicina e Chirurgia ha da subito abbracciato la sfida della divulgazione scientifica: raccontare la scienza e la salute è la sua passione. Ha collaborato e ancora scrive per diverse testate, on e offline.

L’oncologia ci sta abituando ad una serie di rivoluzioni, che si succedono senza sosta. All’origine di questi sviluppi ci sono gli studi sulla biologia delle cellule tumorali, che hanno consentito di “personalizzare”, caso per caso, anche l’approccio di cura. Ed è su questo fronte, in particolare per il tumore della mammella che ha già dato metastasi, che le novità si fanno sempre più importanti.

Basti ricordare in questo senso quanto comunicato alla principale assise internazionale, il congresso della società Americana di Oncologia Clinica (Asco) dove sono stati presentati i risultati di una ricerca che apre ancora di più la strada al trattamento con i cosiddetti anticorpi “coniugati”, ovvero a farmaci che vengono trasportati esattamente nelle cellule tumorali grazie ad una sorta di “cavallo di Troia”, che favorisce la massima attività del principio attivo limitando al contempo gli effetti collaterali sulle cellule sane.

Nel corso del convegno, in corso a Chicago, sono stati infatti presentati i risultati dello studio Destiny-Breast04, che ha preso in esame donne che non presentano una significativa espressione del recettore Her-2, una specie di “guida”, se presente, per terapie mirate. La ricerca dimostra che la sopravvivenza libera da malattia e la stessa sopravvivenza globale migliorano nelle donne con queste caratteristiche trattate con uno di questi farmaci (trastuzumab deruxtecan), rispetto alla chemioterapia standard.

La terapia su misura

Ogni anno, in Italia, circa 55.000 donne si ammalano di tumore della mammella. Grazie allo screening e alla diagnosi precoce è possibile arrivare sempre più rapidamente a riconoscere il nemico. Ma soprattutto grazie agli studi sulle caratteristiche delle cellule neoplastiche, l’oncologo riesce a programmare caso per caso il trattamento più indicato, sfruttando le diverse armi a disposizione. Le caratteristiche genetiche e molecolari delle cellule tumorali giocano infatti un ruolo importante nella messa a punto di un approccio “personalizzato”.

Questo è importante non solo nelle prima fasi di malattia, ma anche e soprattutto quando il tumore ha già dato metastasi. Infatti il 6-8% delle nuove diagnosi viene effettuata con la malattia già in fase metastatica, e sono migliaia le donne che convvivono con questa situazione. La ricerca deve dar loro una risposta sempre più efficace, ricordando l’importanza dei test genetici e della definizione delle caratteristiche del tumore.

In termini generali, infatti, i tumori possono essere responsivi agli ormoni, avere il recettore Her-2 positivo oppure risultare tripli-negativi, cioè non presentare punti d’attacco specifici della cellula su cui “mirare” la terapia. Tra le forme che più hanno fatto registrare progressi ci sono il 15-20% di tutti i casi di carcinoma mammario, che manifestano il sottotipo Her2-positivo aggressivo. In questo senso, oltre agli altri farmaci disponibili l’oncologo potrà possibilità di utilizzare anche una sorta di “trasportatore intelligente” che riconosce la cellula malata entra al suo interno e rilascia il farmaco che la uccide senza influire sulle cellule sane. Un grande passo avanti.

L’aiuto degli anticorpi coniugati

Gli oncologi, in caso di tumore Her2-positivo (nello studio presentato all’Asco anche con bassa espressione) ma non solo, debbono sempre scegliere il trattamento più indicato in base alla fase della malattia ed alla gravità del quadro, oltre che alle condizioni generali della donna. C’è però un obiettivo che appare fondamentale: arrivare a trattamenti che limitino a addirittura evitino il ricorso alla classica chemioterapia.

Ed è su questo che si lavora. Anche sfruttando l’attività di anticorpi monoclonali associati ad altri composti, come appunto nel caso del farmaco impiegato nella ricerca presentata al Congresso di Chicago. In particolare, infatti, deruxtecan è una molecola che agisce con meccanismo tradizionale, ma sarebbe così potente da non poter essere somministrata in forma libera perché eccessivamente tossica per l’organismo.

Grazie al “fidanzamento” di breve durata, con l’anticorpo monoclonale trastuzumab, che riconosce i recettori HER2, entra solamente nelle cellule tumorali, risparmiando quelle sane. L’anticorpo monoclonale è quindi il “trasportatore” capace di scegliere esattamente dove rilasciare il principio attivo, appunto deruxtecan.

Una volta all’interno, il farmaco danneggia irrimediabilmente il Dna tumorale e inoltre è capace di attraversare facilmente la membrana plasmatica della cellula, raggiungendo quelle adiacenti. Una strategia che, oggi e in futuro, potrebbe rivelarsi sempre più utile nella sfida ai tumori femminili, n un settore in cui si stanno facendo strada nuove prospettive di cura, che si aggiungono a quelle già disponibili, cui si aggiungerà in futuro anche l’immunoterapia, sempre con la necessità di ottimizzare caso per caso l’approccio di cura.