PEA, cos’è il biomarcatore che può aiutare nella diagnosi di psicosi

Palmitoiletanolamide, o PEA, è prodotta dall'organismo: a cosa serve e perché può essere utile a capire chi soffre di problemi psichici

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Federico Mereta

Giornalista Scientifico

Laureato in medicina e Chirurgia ha da subito abbracciato la sfida della divulgazione scientifica: raccontare la scienza e la salute è la sua passione. Ha collaborato e ancora scrive per diverse testate, on e offline.

Gli esperti della Società di NeuroPsicoFarmacologia (Sinpf), riuniti a Milano per il congresso nazionale, parlano per la prima volta di una strategia di precisione per riconoscere presto chi può andare incontro a psicosi. Perché tra i temi in discussione, si tratta della palmitoiletanolamide, o PEA.

La PEA, prodotta nell’organismo, presente in alcuni alimenti e già utilizzato come integratore per i suoi effetti analgesici e antinfiammatori, è fondamentale per il benessere del sistema nervoso centrale grazie alla sua azione sul sistema degli endocannabinoidi, che è coinvolto in funzioni essenziali come la memoria, il dolore, l’umore, l’appetito e la risposta allo stress. E può aumentare inizialmente in modo naturale nei pazienti con psicosi, per compensare le alterazioni connesse alla malattia, tanto da essersi rivelato un biomarcatore precoce molto importante. Nel lungo periodo la compensazione diventa però impossibile e i livelli di PEA  prodotta dall’organismo si riducono.

Come funziona questa sostanza

Oltre all’alimentazione, la PEA può essere assunta anche con integratori. In futuro, inoltre, è possibile ipotizzare e sperare in un utilizzo anche per contrastare problemi di memoria e declino cognitivo. Il motivo? La PEA, i cui livelli tendono a diminuire anche con l’età, protegge i neuroni e sembra poter migliorare memoria, linguaggio e funzionalità cognitiva nelle attività della vita quotidiana.

“Il sistema degli endocannabinoidi è coinvolto, assieme al sistema infiammatorio, nello sviluppo di vari disturbi psichiatrici e in particolare della psicosi. La neuropsicofarmacologia di precisione oggi mira perciò a individuare sostanze che modulino proprio il sistema endocannabinoide e che possano rivelarsi più tollerabili dei farmaci attualmente disponibili – spiega Matteo Balestrieri, direttore della Clinica Psichiatrica dell’Azienda Sanitaria Universitaria di Udine, Co-Presidente SINPF e autore delle due recenti revisioni degli studi sulla PEA –.

Un candidato che si sta mostrando interessante è la PEA, che non è un endocannabinoide, non si lega ai recettori per gli endocannabinoidi ma influenza il sistema con il cosiddetto ‘effetto entourage’: potenzia cioè l’azione degli endocannabinoidi naturali, aumentandone i livelli (o riducendone la degradazione), ed è perciò in grado di avere effetti sulle funzioni regolate dagli endocannabinoidi come la risposta al dolore o la comparsa di sintomi della psicosi”.

Come la PEA può essere marcatore di psicosi

Come testimoniato dai lavori del gruppo di ricerca di Udine coordinato da  Marco Colizzi, leader italiano in questo campo, gli studi sul rapporto tra PEA e psicosi testimoniano che i livelli di questa sostanza nel plasma aumentano nelle fasi iniziali di malattia e in maniera proporzionale alla sua gravità.

“La PEA dunque – prosegue Balestrieri – si sta rivelando un utile biomarcatore precoce di psicosi. Poiché questo incremento delle quantità della sostanza, che ha probabilmente lo scopo di compensare le alterazioni connesse alla patologia, non viene mantenuto nel lungo periodo, si è ipotizzato che un’integrazione di PEA nei pazienti possa essere positiva: i dati raccolti in tre studi clinici confermano che l’associazione alle consuete terapie può ridurre i sintomi psicotici e maniacali, senza indurre eventi avversi gravi”.

La PEA come speranza per proteggere i neuroni

La PEA, che appartiene alla classe delle ammidi degli acidi grassi, è una sostanza naturale, che il nostro corpo produce e che si trova anche in cibi come uova, piselli, pomodori e soia. Viene già utilizzato come integratore per la sua azione analgesica e antinfiammatoria, che dipende dalla sua capacità di interagire non soltanto con il sistema endocannabinoide, ma anche con il sistema immunitario. Sul fronte del declino cognitivo, si tratta di una potenzialità interessante.

“Il declino cognitivo è correlato a processi di neurodegenerazione indotti da danni vascolari, ossidativi, infiammatori che l’organismo cerca di contrastare producendo molecole lipidiche, fra cui PEA, nel tentativo di ripristinare gli equilibri e prevenire ulteriori danni – segnala Claudio Mencacci, Co-Presidente Sinpf e direttore emerito di Neuroscienze all’Ospedale Fatebenefratelli-Sacco di Milano –.

Le ricerche hanno dimostrato che la PEA ha le potenzialità per proteggere i neuroni: gli studi su modelli animali mostrano che, soprattutto grazie alla sua interazione col sistema endocannabinoide, può migliorare funzioni come la memoria e l’apprendimento riducendo lo stress ossidativo, l’espressione di marcatori pro-infiammatori e riequilibrando la trasmissione eccitatoria cerebrale”.

La speranza, per ora siamo a questo punto, i dati disponibili fanno ipotizzare l’importanza di questa sostanza. Come spiega lo stesso Mencacci “appare cioè in grado di ridurre affaticamento e deterioramento cognitivo, migliorando la funzione esecutiva globale nelle attività quotidiane, la memoria, i deficit di linguaggio. La ricerca dovrà confermare queste ipotesi, ma è possibile che un’integrazione di PEA possa in futuro aiutare a prevenire i disturbi neurodegenerativi e potenziare i processi di riparazione che l’organismo mette in atto per rallentarne la progressione”.