Il punto centrale è la cistifellea. “Riposa” sul fegato e diventa una sorta di deposito per la bile, pronto ad essere spremuto in caso di necessità, in base all’alimentazione. Nella colecisti, altro nome di quest’organo, la bile viene anche concentrata. Così, quando consumiamo alimenti ricchi di grassi, possiamo digerirli al meglio.
Ovviamente, la colecisti manda il suo “prodotto” in un canale, detto dotto cistico, che poi si collega al coledoco e quindi all’apparato digerente. Ma le “strade della bile”, appunto le vie biliari, non vanno solamente oltre la colecisti. Si trovano anche, in mille rivoli e canali, all’interno del fegato. In questo senso si parla di vie biliari intraepatiche. Insomma, siamo di fronte ad una realtà complessa che a volte non si forma completamente o comunque tende a dare problemi già subito dopo la nascita.
Per alcuni quadri la ricerca sta portando ad opportunità di cura sempre più efficaci, come hanno ricordato gli esperti riuniti al congresso SIGENP (Società Italiana di Gastroenterologia Epatologia e Nutrizione Pediatrica) che si è svolto in questi giorni a Palermo. Proprio su due patologie concentriamo l’attenzione: le PFIC e l’atresia biliare.
Indice
Cosa sono e come si affrontano le PFIC
Con la sigla PFIC si identifica la Colestasi Intraepatica Familiare Progressiva. Il 5 ottobre prossimo si celebra la giornata mondiale dedicata alla sensibilizzazione sulla patologia. Si tratta in realtà di un gruppo di malattie rare che insorgono più spesso durante l’infanzia alterando il normale flusso della bile verso l’intestino, con sintomi invalidanti come il prurito, che può interferire con il sonno e le attività quotidiane, peggiorando in modo significativo le condizioni di vita dei piccoli pazienti e delle loro famiglie.
“La PFIC e tutte le malattie rare importante per la medicina e per la società. – commenta Giuseppe Maggiore, Epatologia e Clinica dei Trapianti, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. La loro natura complessa e la rarità dei casi ostacolano la diagnosi, la ricerca di cure efficaci e l’accesso a terapie adeguate. In questo scenario, la cooperazione tra i medici, i pazienti, le associazioni di pazienti e la società intera è fondamentale, per rispondere ai bisogni dei piccoli pazienti e delle loro famiglie”.
Un libro per conoscere la PFIC
Si intitola “Il drago ruba bellezza”, la fiaba realizzata da PFIC Italia Network Odv e Carthusia Edizioni. La storia, volta a promuovere consapevolezza e informazione sulla patologia e sulle vite dei piccoli pazienti pesantemente condizionate dalla malattia, ma anche per aiutare i bambini e le loro famiglie a raccontare e rielaborare i loro stati d’animo, le paure e i desideri.
“Come genitori e come associazione crediamo nell’importanza di soffiare parole coraggiose, che abbraccino i bambini e i ragazzi con PFIC e le loro famiglie, affinché nessuno si senta più solo nella sua battaglia contro il drago. – commenta Francesca Lombardozzi, Presidente di PFIC Italia Network Odv. Partecipare alla nascita di questo albo illustrato ci è sembrata la via giusta perché le parole coraggiose possano raggiungere tutte le nostre famiglie che si trovano a dover combattere la malattia e la comunità intera, compresa quella scientifica, affinché anch’essa scenda in campo al nostro fianco”.
Il percorso editoriale è nato da gruppi di ascolto che hanno coinvolto le famiglie di bambini con PFIC e i medici che li seguono nel loro percorso, insieme alla scrittrice e all’illustratore. Dalla condivisone delle loro emozioni e dei loro vissuti Emanuela Nava ha preso spunto per immaginare questa fiaba illustrata che parla di coraggio, arricchita dalle vivide illustrazioni di Marco Brancato, capaci di richiamare le atmosfere che accompagnano l’evoluzione del racconto. Protagonisti dell’albo illustrato sono il riccio Igor e l’istrice Lea, che hanno un nemico da sconfiggere: un terribile drago con artigli feroci e la lingua di fuoco. I loro cari soffiano parole coraggiose per aiutarli e i due protagonisti troveranno nel bosco un aiuto prezioso e inaspettato.
Cos’è, quanto è grave e come si cura l’atresia biliare del neonato
In caso di atresia biliare, per cause non definite completamente, le vie biliari vanno incontro a un processo infiammatorio progressivo che le distrugge. Per questo bilirubina e sali biliari si accumulano nel fegato, da dove passano nel sangue e in altri organi provocando danni devastanti. Certamente rara, si parla di un caso ogni 12-15000 nati, ma letale, in assenza di cure specialistiche.
Oggi però si può curare e, in un buon numero di casi, in modo del tutto soddisfacente. Esiste una sofisticata tecnica chirurgica chiamata procedura di Kasai, un intervento che, praticato sui neonati, crea un collegamento tra fegato e intestino tenue per supplire alle vie naturali – ormai irrecuperabili – per far defluire la bile. Ma ha probabilità di successo se eseguito in tempo, entro i 60 giorni di vita. E questo significa scoprire la malattia poco dopo la nascita.
Dopo, ma comunque entro i due anni, c’è solo il trapianto di fegato. Non è la soluzione finale, perché si può parlare di “guarigione” definitiva in poco più della metà dei casi, anche nelle condizioni migliori. Per ora; ma naturalmente le tecniche progrediscono. In Italia dal dal 2011 tutti i casi vengono annotati in un registro nazionale, e dal 2018, grazie all’attività del Network italiano SIGENP per lo studio dell’atresia delle vie biliari, esiste la possibilità di coordinare i 13 centri di alta specializzazione e raccogliere dati sui pazienti affetti. Tuttavia rispetto agli altri Paesi europei, la percentuale di guarigione, o più correttamente di sopravvivenza con fegato nativo a cinque anni, è inferiore.
L’importanza della diagnosi precoce dell’atresia biliare
I dati, che fanno riferimento ad uno studio compiuto da un gruppo di ricerca del network italiano SIGENP (Brescia, Roma, Palermo, Salerno, Bergamo), si basano su un’analisi retrospettiva su 254 casi italiani diagnosticati e trattati nell’arco di dieci anni, dal 2011 al 2021. La sopravvivenza a cinque anni con fegato nativo dei pazienti curati con la procedura di Kasai (collegamento con l’intestino tenue) in Italia è stata del 35,4% ; mentre in Francia del 41,2%, in Inghilterra del 51,3%, nei Paesi bassi del 46%, Paesi Scandinavi del 55%, in Svizzera del 37,4.
Il ritardo nella diagnosi appare come l’elemento chiave per spiegare queste percentuali. Il successo di queste terapie è tanto maggiore quanto minore è il danno che è già stato subito dal fegato. Quindi se si interviene su un fegato ancora poco danneggiato le possibilità di risoluzione sono alte; ma si riducono man mano che il tempo passa e il danno si aggrava. Tant’è vero che, tornando allo studio citato, tra i casi italiani il successo a cinque anni diventa del 48,9% (anziche del 35,4) quando l’intervento viene eseguito prima dei 40 giorni di età. Dunque è chiara la sfida che i pediatri epatologi devono affrontare: riuscire a diagnosticare l’atresia biliare il più presto possibile.
“Il sospetto precoce e quindi l’abbassamento dell’età alla diagnosi – dice Angelo Di Giorgio, dell’Ospedale Giovanni XXIII di Bergamo – sono la chiave per migliorare gli esiti dei neonati con atresia biliare in Italia. E’ un obiettivo possibile, se c’è conoscenza della malattia: i genitori che osservano la persistenza dell’ittero oltre le due settimane di vita, l’emissione di feci ipo-acoliche cioè grigie o biancastre e di urine scure devono rivolgersi subito al proprio pediatra e ad un centro specializzato”.
“L’indicazione che ci fornisce questo studio retrospettivo è chiara” conclude il professor Claudio Romano, Ordinario di Pediatria all’Università di Messina e Presidente SIGENP, “I nostri centri specialistici sono assolutamente all’avanguardia, malgrado questa sia una malattia difficile, non ancora sempre dominabile. Ma occorre che i medici sul territorio e i genitori siano meglio informati per accorgersi tempestivamente dei segni della malattia e rivolgersi agli specialisti”.