Steatosi, cosa significa avere il fegato “grasso” e cosa si rischia

La steatosi è l'eccesso di "grasso" nel fegato: cause, sintomi, esami di controllo, rischi e dieta corretta

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Federico Mereta

Giornalista Scientifico

Laureato in medicina e Chirurgia ha da subito abbracciato la sfida della divulgazione scientifica: raccontare la scienza e la salute è la sua passione. Ha collaborato e ancora scrive per diverse testate, on e offline.

Pubblicato: 23 Ottobre 2023 10:59

Gli eccessi si pagano. Anche e soprattutto se si mantengono nel tempo. Ad esempio, le cattive abitudini e gli stili di vita non propriamente sani vanno a ripercuotersi sulla salute del fegato. Che sconta questo sovraccarico di lavoro con affaticamento. E, col tempo, rischia di andare incontro ad un infarcimento di tessuto adiposo che può condurre alle varie forme di steatosi epatica.

Il quadro può assumere caratteristiche diverse in termini di gravità e non va correlato solo agli alcolici, tanto che si parla di steatosi epatica non alcolica. Comprendere la situazione è importante, così come fare alcuni semplici esami di controllo, per sapere se il laboratorio centrale del nostro corpo sta soffrendo. E, insieme al medico, cercare di correggere la situazione.

Quando si parla di fegato steatosico

In genere circa il 5 per cento delle cellule epatiche, ovvero gli epatociti, contengono grasso. In caso di steatosi (condizione spesso legata anche al sovrappeso) la componente di cellule ricche di adipe sale. Addirittura, in chi fa i conti con l’obesità o soffre di diabete, la presenza del tessuto adiposo all’interno del fegato può anche arrivare intorno al 70-80 per cento.  In genere questa situazione si associa all’eccesso di calorie alimentari, soprattutto se si è sedentari, penalizza il benessere del fegato. Ciò che conta, in ogni caso, è capire che qualcosa non funziona.

Tra gli esami del sangue è utile fare un controllo delle transaminasi, mentre informazioni importanti giungono anche dall’ecografia, del tutto indolore e non invasiva, che si basa sugli ultrasuoni. Se il fegato “riflette” molto nel corso dell’esame ecografico, il sospetto che ci sia molto “grasso” è più che giustificato. Il problema è che questa condizione porta ad aumentare il rischio di andare incontro alla sindrome metabolica, caratterizzata da sovrappeso/obesità, diabete, ipertensione, aumento dei trigliceridi, riduzione del colesterolo buono o Hdl.

Fegato grasso, metabolismo o consumo di alcol?

Il fegato grasso può essere metabolico o alcolico.  Si parla di steatosi metabolica quando il soggetto consuma meno di 20 grammi di alcol al giorno nel caso di una donna, meno di 30 per gli uomini, ossia meno di 2-3 bicchieri di vino. Se si superano questi valori non si può parlare di steatosi non alcolica.

In presenza di steatosi metabolica l’alcol anche in piccole dosi ha comunque un effetto moltiplicativo, con un danno epatico molto aggravato. Uno studio recente pubblicato su Lancet riporta che l’unico quantitativo  di alcol non dannoso è 0. L’alcol peggiora la situazione metabolica del fegato che già è grasso e non funziona correttamente. Qualsiasi assunzione di alcolici in questi casi andrebbe evitato per ridurre il rischio di ulteriori complicazioni.

Perché il diabete si associa alla steatosi epatica

È fondamentale controllare il metabolismo nelle persone che soffrono di steatosi epatica. Ed in particolare occorre valutare se esiste uno specifico cardiovascolare, visto che questa condizione si può associare più facilmente ad ipertensione, dislipidemia, intolleranza glucidica/diabete. Tra i meccanismi che si creano in caso di steatosi epatica infatti c’è anche la resistenza all’insulina, condizione che porta il pancreas a produrre più insulina per mantenere la glicemia nella norma  e questo a lungo andare causa diabete. I pazienti con fegato grasso hanno un rischio di sviluppare il diabete tre o quattro volte superiore rispetto a chi non ne soffre. E il diabete gioca poi un ruolo chiave nello sviluppo dei problemi vascolari.

Cos’è la sindrome metabolica e perché si associa a steatosi

La presenza di infarcimento grasso del fegato, la cosiddetta steatosi, insieme alle apnee notturne e alla sindrome dell’ovaio policistico può aumentare il rischio di sviluppare sindrome metabolica. Di cosa si tratta? La sindrome metabolica è caratterizzata dalla presenza contemporanea di più condizioni, come ad esempio ipertensione, glicemia alta a digiuno, alterazione dei livelli dei lipidi nel sangue, sovrappeso e obesità addominale. Spesso non crea disturbi particolari, se non associati all’aumento della glicemia e della pressione. Si pensa che alla base del fenomeno ci sia la resistenza all’insulina con scarsa sensibilità delle cellule all’ormone ed alterazione del metabolismo del glucosio, con innalzamento della glicemia.

Perché è importante riconoscere la steatosi epatica

“La steatosi epatica rappresenta la causa di malattia cronica di fegato con la maggiore prevalenza nel mondo occidentale – ha recentemente spiegato Vincenza Calvaruso, del Comitato Scientifico AISF (Associazione Italiana Studio Fegato). La diffusione di obesità e diabete mellito di tipo 2 ha comportato una manifestazione clinica di interessamento epatico che si è espansa in maniera significativa. Diventa quindi prioritario identificare il paziente a rischio.

Su questo hanno lavorato molto gli epatologi italiani, offrendo così alla Medicina Generale strumenti utili per diversi fini: serviranno a riconoscere chi tra i pazienti sia a rischio di malattia metabolica, favorendo una diagnosi precoce, mentre per i pazienti in follow up con diagnosi istologica o con cirrosi si potranno gestire meglio le complicanze. Questi studi sono anche uno spunto per incrementare la collaborazione con gli altri specialisti coinvolti sulle malattie metaboliche”.

La steatosi mette la donna a rischio cuore

Il sesso femminile riesce a proteggere nei confronti di infarto ed ictus nelle donne con fegato grasso? Purtroppo pare proprio di no.  Negli USA esistono sistemi informatici che raccolgono i dati clinici di larghe fasce della popolazione e quindi sono stati valutati tutti gli individui adulti nella contea di Olmsted, in Minnesota. I pazienti con steatosi epatica (83.869) sono stati confrontati con una popolazione, analoga per età e sesso, di soggetti senza NAFLD (15.209). In questi due gruppi è stata quindi valutata l’incidenza di infarto del miocardio, angina ed ictus nei sette anni successivi di valutazione.

Questa valutazione su una fascia così ampia di popolazione ha confermato che, nella popolazione generale, infarto del miocardio ed ictus sono ridotti nella popolazione femminile rispetto a quella maschile. Quando invece consideriamo i soggetti con fegato grasso, l’incidenza di eventi ischemici cardiovascolari nei pazienti con NAFLD è risultata essere simile negli uomini e nelle donne. Quindi la presenza del fegato grasso fa perdere alle donne l’effetto protettivo del sesso nei confronti delle malattie cardiovascolari.

Di conseguenza, le donne con fegato grasso sono affette da malattie cardiovascolari in età più giovane rispetto a donne senza steatosi epatica, aumentando in modo drammatico l’età cardiovascolare di questi soggetti di ben 18 anni, raddoppiando il rischio di infarto e/o ictus nelle donne giovani o di mezza età con fegato grasso. Sintesi finale: le donne con fegato grasso hanno un rischio di infarto o ictus paragonabile a quello degli uomini, osservazione spiegabile con le alterazioni metaboliche nelle donne con NAFLD che annullano l’effetto protettivo degli ormoni sessuali femminili.

Che differenza c’è tra NAFLD e NASH

La prevalenza di steatosi epatica, spesso nota come fegato grasso o con l’acronimo NAFLD (Non Alcoholic Fatty Liver Disease, Steatosi epatica non alcolica) è sicuramente in continuo aumento. Stando agli studi più recenti, questa condizione può interessare anche una persona su quattro. Ma il quadro tende a manifestarsi con maggior frequenza in chi presenta specifici problemi del metabolismo, come ad esempio l’obesità o il diabete. Se si soffre di queste condizioni, si può anche arrivare ad una prevalenza nella specifica popolazione di circa una persona su due. Va anche detto che in chi deve fare i conti con la NAFLD aumentano anche i rischi di evoluzione in NASH (la steatoepatite non alcolica, Non Alcoholic Steato-Hepatitis) e di complicanze, fino a cirrosi scompensata e tumore del fegato.

Come si riconosce chi ha NAFLD e rischia di peggiorare

Dall’Università di Torino è recentemente giunto uno studio volto a identificare i pazienti con NAFLD che sono più a rischio di progredire verso una malattia di fegato avanzata. Come? Attraverso biomarcatori, cioè molecole che possano predire l’insorgenza di un’alterazione metabolica. Ad oggi c’è a disposizione solo la biopsia, che però è uno strumento molto invasivo.

Lo studio su 200 pazienti con NAFLD e danni epatici di diverso grado ha individuato il legame tra la proteina IP10 e diversi meccanismi di infiammazione: abbiamo notato che i pazienti con NAFLD e una danno epatico più avanzato presentano livelli di IP10 più alti. Individuare la presenza di questa proteina è molto semplice, in quanto basta analizzare il plasma da un semplice prelievo di sangue: un controllo che può essere suggerito dal medico di famiglia quando si noti una predisposizione per un’alterazione metabolica.

Questa proteina, infatti, potrebbe essere utile per identificare preventivamente la progressione del danno epatico. Serviranno comunque ulteriori studi per capire se questa proteina, insieme ad altre molecole, possa creare un modello più efficace per impedire il progredire di NASH, che si conferma prevalente nei soggetti obesi, diabetici o con insulino-resistenza.

Come riconoscere l’associazione tra NASH e diabete

La NASH si caratterizza per comorbidità come obesità, cardiopatie e soprattutto diabete. Proprio sulla compresenza di NASH e diabete, patologie spesso concomitanti, si è incentrato un recente studio multicentrico dell’Università di Palermo. Si tratta del primo studio internazionale eseguito nei pazienti con NAFLD e diabete che valuta l’accuratezza diagnostica dei test non invasivi per la diagnosi fibrosi avanzata, che rappresenta il principale driver per lo sviluppo delle complicanze epatiche ed extra-epatiche.

La stadiazione della fibrosi viene eseguita tramite biopsia epatica, metodo che risulta però invasivo e dunque non sempre utilizzabile poiché uno strumento invasivo, soprattutto considerando la frequenza di questa malattia. Da qui la necessità di test più semplici e non invasivi per definire gli stadi della malattia.

Lo studio, che ha visto arruolati 1780 pazienti, ha individuato il test migliore per rilevare la severità di fibrosi epatica nella misurazione della stiffness epatica con Fibroscan, che si è dimostrato quello con maggiore accuratezza diagnostica, seppur una piccola parte di paziente ricadano in un’area di incertezza diagnostica detta “aria grigia”.

Tuttavia, al di fuori dei centri epatologici specializzati, non sempre questo macchinario è disponibile: in questi casi il FIB-4 si è mostrato il test più specifico e soprattutto è molto semplice da calcolare in qualsiasi setting perché richiede l’utilizzo di poche variabili, tra cui esami bioumorali, e solo nel caso di incertezza diagnostica, indirizzare il paziente verso un centro di riferimento dove Fibroscan sia disponibile e dunque sia possibile eseguire la misurazione della stiffness (ovvero l’elasticità) epatica.

Come si combatte la steatosi a tavola

L’obiettivo di chi ha la steatosi deve essere rendere più “leggero” il fegato stesso. E non si può puntare sui farmaci, a meno che il medico non ne rilevi l’utilità: bisogna invece essere “efficaci” in termini di buone abitudini. Per un’alimentazione corretta, l’ideale rimane affidarsi alla dieta mediterranea, che è povera di grassi saturi, di formaggi, salumi, dolci, mentre è ricca di frutta, verdura, legumi, pesce. È poi ovviamente indispensabile una riduzione delle calorie nel caso in cui il soggetto sia sovrappeso. Infine, anche se la pigrizia sembra dominare, ricordiamoci che il movimento è fondamentale.

Una regolare attività fisica è fondamentale per proteggere l’organo dall’attacco del grasso. Particolare attenzione va prestata alla  “pancetta”, che segnala anche l’eccesso di grasso alimentare, può essere il parametro chiave per capire che qualcosa non funziona a dovere e che l’organismo è messo a dura prova, ed anche a rischio.

In ogni caso l’alimentazione ipercalorica, specie se unita alla scarsa attività fisica, rappresenta un nemico per la salute del fegato costretto ad un superlavoro e portato a “infarcirsi” di tessuto adiposo. Per questo chi è in sovrappeso ha una probabilità molto più elevata di sviluppare il fegato grasso.

Perché l’attività fisica regolare è importante per combattere la steatosi

In caso di steatosi epatica non alcolica, quella che viene spesso definita con la sigla anglosassone NAFLD, bisogna controllare il peso, nutrirsi con intelligenza privilegiando gli alimenti di origine vegetale e limitando i grassi e poi… poi bisogna fare tanto, tanto movimento. Meglio se con veri e propri piani di attività fisica regolare ad alta intensità. Con questa misura, infatti, si va ad influire su diversi meccanismi che contribuiscono a “rilassare” il fegato, aiutando a ripulirlo dai depositi di lipidi che lo rendono appunto appesantito dal tessuto adiposo.

A dirlo è una ricerca condotta dagli esperti dell’Università della Finlandia orientale, apparsa su Scientific Reports. Che il miglioramento della condizione del fegato in chi fa regolare attività fisica sia legato al miglior controllo del peso è intuitivo. Ma questo non è l’unico meccanismo che si instaura grazie ad un programma, da seguire nel tempo e da valutare sempre con il proprio medico, in grado di indurre sforzi intensi e quotidiani. Questo è quanto emerge dalla ricerca che ha studiato due popolazioni con steatosi epatica non alcolica.

In una è stato proposto un piano di attività fisica guidata con sessione bisettimanali sotto controllo più un’attività scelta dal volontario, nell’altro non c’è stata alcuna indicazione in merito. Nessuno dei partecipanti ha dovuto cambiare le proprie abitudini o comunque aveva come obiettivo una diminuzione del peso corporeo, proprio per eliminare questa possibile variante. Alla fine dei tre mesi di osservazione, dopo i controlli iniziali, gli studiosi sono andati a vedere cosa è cambiato.

Grazie all’attività fisica intensa, con un programma ben definito, si è avuto progressivamente un miglioramento nella capacità di sostenere gli sforzi e nel consumo di ossigeno. Ovviamente, nel senso che c’era da aspettarselo, si è anche osservato un calo della glicemia (ovvero dei valori di glucosio nel sangue) a digiuno e si è progressivamente ridotta la circonferenza della vita. Ma non basta.

In chi faceva esercizio regolare sono cresciuti i livelli degli aminoacidi nel tessuto grasso. Cosa significa? L’ipotesi è che proprio questa variazione della disponibilità dei “mattoncini” che si uniscono per costruire le proteine nel corpo sarebbe da legarsi al miglioramento nel metabolismo. E non solo per i grassi. Il meccanismo entrerebbe in gioco anche nella resistenza all’insulina, meccanismo chiave per la comparsa di diabete. Infine, un’azione dell’attività fisica sarebbe anche da correlare a possibili mutamenti in positivo del microbiota intestinale, con un possibile impatto sulla composizione dei batteri che, oltre a regolare diverse funzioni, entrano anche in gioco in vere e proprie reazioni, come laboratori autonomi all’interno dell’organismo.

Fonti bibliografiche

D. Tholey, Steatosi epatica non alcolica, gennaio 2023, Manuale MSD

Steatoepatite non alcolica (NASH), American Liver Foundation