Sono passati ormai quattro anni da quando, Maria Grazia Chiuri, a capo della maison francese Dior, scelse una t-shirt in cui capeggiava la scritta “We should All Be Feminists“, risvegliando attraverso la moda l’anima del femminismo. Una proposta vincente che, nel giro di poco tempo, diventò una vera e propria ispirazione per le aziende del settore che crearono un nuovo filone.
Così il femminismo diventò, e lo è ancora, una tendenza da indossare. Non solo capi d’abbigliamento, magliette e accessori, ma vere e proprie campagne di sensibilizzazione hanno caratterizzato questo fenomeno che si è esteso, anche grazie ai social network, a macchia d’olio. Oggi ci sono gli instagrammer e gli influencer, portavoce di un messaggio che più che una rivoluzione, sembra solo una tendenza da cavalcare a ogni costo.
La stessa parola “fenomeno”, utilizzata qualche riga sopra fa accapponare la pelle di chiunque conosca la nostra storia, quella fatta di donne che forti e coraggiose, pronte a tutto per ottenere la libertà. Le stesse che hanno combattuto, perdendo anche la vita, per garantirci un futuro migliore.
E certamente fa piacere che quei simboli di una lotta che è durata per secoli, vengano indossati o esposti con orgoglio, ma se potessero parlare alle donne che lo fanno, cosa direbbero le vere suffragette a queste versioni 2.0? Già qualche anno fa, l’attivista americana Jessa Crispin, autrice del libro Perché non sono femminista, aveva esposto ragionevolmente dubbi e critiche a questa modalità mainstream di fare femminismo.
Una versione pop e sicuramente alla portata di tutti che però ha trasformato quella che era è deve essere una lotta radicale in una tendenza. E il rischio è quello che la parola stessa, ripetuta all’infinito e utilizzata alla stregua di un oggetto comune, perda il suo significato più autentico, quello per il quale donne come noi hanno combattuto contro tutto e tutti per annullare le differenze di genere e combattere la società stereotipata con la quale ancora oggi ci ritroviamo a fare i conti.
Mai come in questo momento storico di femminismo se ne parla, e forse anche troppo. Dalle star che approfittano dei discorsi ufficiali per rimarcare i diritti delle donne, alle manifestazioni, fino ad arrivare alle tendenze, come dimostrano appunto i capi d’abbigliamento indossati dalle modelle e esibiti sui cartelloni pubblicitari con una campagna di marketing creata ad hoc.
E ben vengano i discorsi di celebrities e star hollywoodiane che utilizzano la loro influenza per parlare alle donne, delle donne, quelle che non temono niente, né tantomeno di identificarsi come le nuove femministe. Iconico resta l’impegno di Patricia Arquette che non ha mai rinunciato al suo ruolo di attrice combattiva, denunciando il grande gap salariale negli Stati Uniti e, come lei, tante altre.
Ascoltare le nuove femministe di oggi, però, non può farci dimenticare tutto ciò che c’è stato prima, le contestazioni e le lotte combattute per creare un mondo migliore, libero dalle ingiustizie e da quel potere esclusivo che è sempre stato nelle mani degli uomini. Perché è quelle donne che dobbiamo ringraziare, è grazie a loro se oggi abbiamo i riflettori puntati sulla liberazione sociale.
Il diritto di voto, la padronanza del proprio corpo e della sessualità, i ruoli professionali e personali lontano dagli stereotipi e poi, ancora la parità di retribuzione. Una rivoluzione che ha attraversato il tempo e lo spazio manifestandosi nella moda e nella bellezza, nello sport e nel lavoro, perché era necessario eliminare quel concetto di passività psicologica dell’elemento femminile così radicata nella società e in parte anche nel pensiero di Freud. Per ottenere ruoli professionali e pubblici le donne hanno sempre dovuto dimostrare qualcosa, in termini di autorità, di conoscenza e di resistenza allo stress. Agli uomini non è mai stato chiesto così tanto.
E che ne è, oggi, di questa grande rivoluzione che ha cambiato il mondo? Tanti passi in avanti sono stati fatti, le donne sono riuscite a entrare nelle università, nei consigli di amministrazione, hanno assunto ruoli pubblici e hanno avuto un posto anche nelle comunità religiose. Tuttavia, le diseguaglianze dei percorso sociali, della ripartizione del lavoro familiare, del tempo libero e degli stipendi esiste ancora, come un cancro avviluppato alla società moderna che proprio non si riesce a combattere.
Torniamo quindi alla riflessione iniziale. Serve davvero gridare al mondo con ogni mezzo di essere femministe senza essere realmente protagoniste della riforma in atto da secoli? Siamo sicure di saper scindere la rivoluzione femminista dai concetti tipicamente femminili?
Le nostre antenate hanno dovuto lavorare sodo, rischiando tutto, per cambiare la percezione dell’universo femminile, per dare alle donne stesse un’opportunità di quel dialogo aperto secoli fa. Far diventare il femminismo una tendenza rischia di trasformarsi in un’arma a doppio taglio: diffondere il femminismo e farlo diventare un fenomeno.
“Io sono femminista” è una frase che merita conoscenza e che non può essere pronunciata e diffusa via social solamente per seguire un trend. Il rischio è quello di delegittimare, svuotare e banalizzare una storia intera fatta di idee, movimenti e parole.
E negli ultimi anni, quella che si è disinnescata, anche attraverso i social network, ricorda l’ecolalia bambinesca che più che esaltare la filosofia che sta alla base del femminismo, la depotenzia e la svilisce. Oggi siamo tutti un po’ più femministi, ma questa è davvero una fortuna?
Se una cosa così grande che ha attraversato i tempi e lo spazio si trasforma in mero stile di vita, siamo certe che non è così che cambieremo il mondo. E forse lo dimostrano tutte quelle situazioni all’interno delle quali ci ritroviamo, ancora, faccia a faccia con pensieri stereotipati e stantii.
Una lotta, per essere tale, deve guardare agli altri individui, alle comunità e ai popoli nutrendo ambizioni universali. Una battaglia che non deve combattere né le altre donne, quelle che apparentemente restano indietro, né gli uomini: il suo compito è quello di scardinare un pensiero che sorregge ancora una buona parte della società che, attraverso una posizione privilegiata e di controllo, opprime l’universo femminile.
Il femminismo di oggi non può negare quella lotta del passato, né assolvere il ruolo con una maglia da duecento euro che riporta la frase “Io sono femminista”: Simone De Beauvoir non l’avrebbe indossata. Ci vuole educazione, c’è bisogno di ideologie, occorre aprire un battito intelligente e prolifico che non si limiti a dire “Io sono femminista”.
E ringraziamo il girl power, il self empowerment e il femminismo universale, ma sarebbe bello, e confortante, sapere che questi discorsi non rischiano di diventare troppo individualistici e di privilegiare, dunque, solo quella classe sociale che ha il potere di aspirare a determinati ruoli e di potersi permettere quella maglia da duecento euro.