Alex è stato condannato per aver ucciso il padre. Lo ha fatto per salvare sua madre

Nel 2020 ha ucciso Giuseppe Pompa per proteggere e salvare la madre dall'ennesima violenza. Ora il ragazzo è stato condannato per omicidio a 6 anni

Foto di Sabina Petrazzuolo

Sabina Petrazzuolo

Lifestyle editor e storyteller

Scrittrice e storyteller. Scovo emozioni e le trasformo in storie. Lifestyle blogger e autrice di 365 giorni, tutti i giorni, per essere felice

“Avevo 10 anni ho capito che la nostra famiglia non era normale. Io usavo il fondotinta della mamma per coprire i lividi”

Inizia così il racconto di Alex Cotoia ai microfoni di One More Time, il ragazzo che nel 2020 si è macchiato di un crimine indicibile: l’omicidio di suo padre Giuseppe Pompa. Nel suo caso, però, non si è trattato di un litigio finito male o di un raptus di follia, ma di un lucido tentativo di sopravvivenza. L’ennesimo, l’ultimo.

La sua non era una vita come gli altri. Non lo era stata durante l’infanzia, quando quel bambino era costretto a utilizzare i trucchi della mamma per coprire i lividi. E non lo era stata dopo, quando la notte non riusciva a dormire perché terrorizzato dall’idea che suo padre potesse fare ancora del male alla mamma o che, peggio, potesse ammazzarla.

Alex adesso è un uomo libero, lo sono sua madre e suo fratello, lo è la casa in cui vivevano che adesso non è più governata dall’uomo nero che tormentava le sue notti. Ma libero in realtà non lo è per davvero, perché trascorrerà i prossimi sei anni in carcere per scontare la pena di omicidio volontario e il resto della sua vita a convivere con i sensi di colpa. Perché ha ucciso suo padre, anche se lo ha fatto per salvare la sua famiglia e se stesso.

Alex Cotoia: l’omicidio e la condanna

In principio c’era Alex Pompa, il figlio di Giuseppe. Il bambino che è dovuto crescere troppo in fretta tra sensi di colpa, paura e tormento, tra mille domande destinate a non avere una risposta, tra i tanti “perché” che non riuscivano a giustificare quella famiglia, la sua, così diversa dalle altre.

Poi c’è stato Alex Cotoia che si è scucito da dosso il cognome dell’uomo che gli ha donato la vita e poi l’ha distrutta. Che ha scelto di vivere nel nome di sua madre e di salvarla. Lo ha fatto nel 2020 a Collegno quando ha ucciso suo padre con 34 coltellate.

Quello che è successo lo hanno riportato le cronache del tempo. Il 30 aprile, dopo l’ennesima lite violenta scatenata dal padre che accusava la moglie di aver salutato con un sorriso il collega, Alex aveva ucciso Giuseppe sferrando colpi violenti con sei coltelli diversi. Era stato lui stesso a chiamare i carabinieri per confessare l’omicidio e spiegare i motivi che lo avevano spinto a commettere un crimine tanto terribile. Non cercava l’assoluzione, ma solo la libertà. Per se stesso, per sua madre e per suo fratello.

Durante il processo per omicidio, gli avvocati difensori avevano fatto ascoltare al giudice 10 ore di registrazione che raccontavano la quotidianità del ragazzo e della sua famiglia. Troppo poche per riassumere una vita fatta di violenza e terrore, ma abbastanza per comprendere le urla, il dolore e la paura.

“Vi rendete conto che cosa ha vissuto Alex?” – ha dichiarato l‘avvocato Claudia Strata in tribunale – “Non poteva studiare, non poteva dormire, non poteva vivere. Ogni sera, come lui stesso ha raccontato, si coricava solo dopo aver abbracciato a lungo sua madre temendo di risvegliarsi e non trovarla più viva”.

Legittima difesa? A lungo si è parlato di questa possibilità, che però non è stata accolta dai giudici. Dopo l’assoluzione ottenuta in primo grado, la procura ha chiesto per il ragazzo 14 anni di reclusione. Alla fine Alex è stato condannato a sei anni, 2 mesi e 20 giorni, come richiesto dal pg Alessandro Aghemo.

“Una sentenza incomprensibile e difficile da accettare”, così l’ha definita l’avvocato difensore. A fargli da eco anche il fratello di Alex: “Deve essere assolto perché ci ha salvato la vita. Se vogliamo che qualcosa cambi, se vogliamo evitare che le donne continuino a morire e che non ci siano più casi come quello di Giulia Cecchettin, la sentenza non può essere questa. Non siamo assolutamente d’accordo e andremo avanti”.

“Non è un assassino” – ha poi aggiunto sua madre – “A questo punto mi chiedo se a qualcuno sarebbe importato davvero qualcosa se fossi stata l’ennesima donna uccisa”.

“È dura vivere con questo peso sulle spalle”

Che ne sarà di Alex, durante il carcere e dopo, nessuno può saperlo. In questi anni il ragazzo ha provato a ricostruire la sua vita riprendendo gli studi e laureandosi in scienze della comunicazione. Ha anche trovato un lavoro come portiere in un hotel per aiutare economicamente la sua famiglia.

Ma sa bene che non sarà facile, né ora né mai. “È veramente dura vivere con questo peso sulle spalle”, ha dichiarato Alex confessandosi ai microfoni di One More Time, il podcast di Luca Casadei prodotto da One Podcast. “Ho solo 22 anni, sono davvero giovane per dover passare tutta la vita con un tormento. Ho ricevuto un ergastolo, e non parlo di quello che si dà in tribunale”.

Il ragazzo, ospite di Luca Casadei, si è raccontato in esclusiva come non aveva fatto mai proprio all’alba della sentenza che l’ha condannato. “Quella era la mia routine. Quando tornavo da scuola sapevo che avrebbe urlato. Avevo solo un’ora di tranquillità per stare con la mamma e con mio fratello prima di andare a dormire”. “La sera sentivo le urla e le minacce dall’altra stanza. Sentivo mio padre che voleva avere un rapporto sessuale con mia madre anche se l’aveva insultata per tutto il giorno. Io e mio fratello ci alzavamo per fare rumore, per far sentire che eravamo svegli perché la nostra paura era quella che potesse ammazzarla nel sonno”.

Alex ha raccontato che suo padre era un violento e che anche lui e il fratello hanno vissuto in prima persona le conseguenze di quell’esistenza così travagliata: “Con gli amici inventavo scuse, mettevo il fondotinta di mamma sul viso per mascherare i segni della violenza. Questa cosa ha condizionato moltissimo il rapporto con gli altri, perché avevo paura di relazionarmi e che gli altri scoprissero cosa stavo vivendo a casa”.

“Aveva questa cosa che ti prendeva per il collo e stringeva” – ha raccontato il ragazzo – ” Lo ha fatto tantissime volte. Usava anche la cinta”. “La prima volta che mi ha picchiato avevo solo 6 anni. Ho fatto cadere una cosa per terra e mi ha tirato un calcio violentissimo. A 10 anni ho capito che la nostra famiglia non era normale”.

“Noi vivevamo in un regime cautelare senza che nessun giudice avesse emesso una sentenza, perché mio papà ci aveva tolto la cosa più importante: la libertà”. “Io non volevo essere Alex, quello dei problemi a casa. Ma Alex con le sue passioni, con la sua vita”, ha poi concluso il ragazzo.