Shlomo Venezia, la voce della memoria

La storia di Shlomo Venezia: la voce preziosa del sopravvissuto del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau

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Sabina Petrazzuolo

Lifestyle editor e storyteller

Scrittrice e storyteller. Scovo emozioni e le trasformo in storie. Lifestyle blogger e autrice di 365 giorni, tutti i giorni, per essere felice

C’è forse qualcosa di ancora più terribile di un viaggio di sola andata, senza speranza né luce, verso l’inferno. Ed è quello di essere complice di quello stesso viaggio e come Caronte diventare l’accompagnatore verso un destino nefasto.

Doveva essere così che si sentiva Shlomo Venezia, quando sopravviveva all’Olocausto, quando taceva su quel dolore che comprimeva l’anima. Lui che aveva la colpa di essersi salvato per la sua prestanza fisica e la sua giovinezza, lui che era stato scelto come prigioniero del Sonderkommando di Birkenau.

E i Sonderkommandos, lo sappiamo, sono diventati per la storia le vittime colpevoli. Quelle che hanno avuto il compito più infame e terribile di tutti, collaborare con i nazisti all’interno dei campi di sterminio per nascondere le prove, per occultare i cadaveri. Erano I corvi neri del crematorio, così li definì Primo Levi. Tra questi c’era anche lui, Shlomo Venezia.

Shlomo Venezia e il Sonderkommando di Birkenau

La storia di Shlomo Venezia rappresenta oggi una delle più preziose testimonianze dell’Olocausto e dei Sonderkommandos.

Nato a Salonicco il 29 dicembre del 1923 da una famiglia di origini ebraiche espulsa dalla Spagna, lo scrittore eredita il cognome e la sua cittadinanza italiana quando insieme ai genitori si stabilisce nella Macedonia greca  sotto il governo veneziano.

Quando i tedeschi occupano la Grecia, a Shlomo e agli altri ebrei italiani vengono date due possibilità: tornare in Italia, e più precisamente a in Sicilia, oppure trasferirsi ad Atene. Quest’ultima opzione, che fu la favorita da Shlomo e da molti altri imprenditori, si rivelò in realtà una trappola fatale.

Atene non fu mai raggiunta: vennero tutti arrestati e deportati, compreso Shlomo Venezia e la sua famiglia.

Assegnato al campo di Auschwitz-Birkenau, Shlomo vide per l’ultima volta sua madre e le sue sorelle che persero la vita nelle camere a gas. Per lui, invece, avevano scelto altro, lo avevano destinato a lavorare nelle squadre dei Sonderkommandos. I prigionieri di questa sezione avevano il compito di collaborare con le SS per insabbiare i crimini commessi. L’unica alternativa al lavoro era la morte.

Una morte che comunque era già scritta nel destino di tutti quei prigionieri. I membri delle squadre, infatti, periodicamente assassinati in massa per evitare che potessero trasmettere le prove delle atrocità commesse nei campi di sterminio.

Eppure Venezia riuscì a sopravvivere. Fu uno dei pochi che riuscì a raccontare gli orrori del Sonderkommando di Birkenau e dei campi di sterminio.

La voce della memoria

Shlomo Venezia è diventato la voce della memoria, una memoria che a lungo ha portato dentro di sé, insieme quelle immagini di morte e di dolore, di terrore e sofferenza.

Tutto quello che ha vissuto si è trasformato per lunghi anni in una instantanea di dolore sospesa tra i sensi di colpa sempre più ingombranti e l’esigenza di raccontare. E alla fine lo ha fatto, Shlomo Venezia ha raccontato quel terribile segreto solo dopo quarant’anni dall’atroce esperienza.

Lo ha fatto dopo la morte di Primo Levi che, come tanti altri, ha accusato i prigionieri di queste squadre di essere in qualche modo complici dell’orrore. Lo ha fatto perché sentiva l’esigenza di raccontare la sua verità, la sua resistenza e quella degli altri membri dei Sonderkommandos.

Shlomo Venezia, che era addetto al trasporto delle vittime nelle camere a gas, divenne la preziosa testimonianza che mancava e che serviva. Nel 1997 divenne uno dei volti e delle voci del documentario Memoria, e Roberto Benigni si rivolse a lui per la sceneggiatura del film La vita è bella.

Morto il 1° ottobre del 2012 all’età di 88 anni, Shlomo Venezia ha trascorso il resto della sua vita con l’unico obiettivo di raccontare la deportazione e gli orrori di Auschwitz-Birkenau, per non dimenticare.

Il sorriso non l’ho più trovato, perché i tormenti di quei mesi da prigioniero hanno profondamente segnato il mio carattere e la mia indole. Tutto mi riporta al campo: qualunque cosa faccia, qualunque cosa veda il mio spirito torna sempre nello stesso posto. Non riesce a uscire mai, per davvero, dal Crematorio. Negli anni successivi ho sofferto molto psicologicamente. È stata una fortuna trovare degli affetti, soprattutto incontrare Marika, mia moglie, che mi ha dato una ragione per continuare a vivere. (Intervista rilasciata a Federico Polverelli nell’ambito del progetto Educazione alla Memoria.