Si chiama diritto di morire, ed è una decisione etica e libera che consente a una persona di avvalersi del suicidio assistito o di sottoporsi all’eutanasia in maniera volontaria. Una scelta, questa, che deve tenere conto della possibilità giuridica che le istituzioni concedono o che, come in alcuni Paesi succede, non concedono affatto.
È un argomento delicato, questo, che da tempi immemori divide le masse e l’opinione pubblica. C’è chi sostiene che un malato terminale debba avere il diritto di interrompere qualsiasi cura e di scegliere di non vivere più, se quella vita non più dignitosa, e chi invece sostiene che all’uomo non dovrebbe essere concessa la libertà di poter decidere di commettere un atto così estremo.
Cosa è giusto e cosa è sbagliato non possiamo dirlo noi. Quello che possiamo fare, però, è raccontarvi la storia di Naomi. Di una ragazza anoressica che non è riuscita a guarire, nonostante il tempo e le cure che si sono susseguite negli anni. Di una persona che, dopo aver trascorso la maggior parte della sua vita ospedali e istituti specializzati, ora vorrebbe solo avere il diritto di morire.
La storia di Naomi
“I medici dissero a Naomi che non poteva lasciare il Denver Health Medical Center perché gravemente disabile. Lei non pensava di esserlo. Tuttavia aveva già deciso di smettere di combattere. Avrebbe preferito morire”.
Inizia così la storia di Naomi riportata dal New York Times, quella di una ragazza che per gran parte della sua vita ha combattuto contro l’anoressia trascorrendo tutto il suo tempo tra ambulatori e ospedali. Oggi ha 37 anni e non ha passioni né amici. I suoi ricordi ruotano tutti intorno a quella malattia che le si è aggrappata addosso e con la quale convive da 26 lunghi anni. Tutto quello che vuole adesso, Naomi, è avere il diritto di morire.
Nel 2018, accortasi di aver perso di nuovo molto peso, la ragazza si era recata in ospedale. No, a quei tempi non voleva morire. Così è iniziato il suo lungo e tortuoso percorso verso la guarigione che però, nel suo caso, non è mai arrivata. Dopo aver intrapreso un percorso di riabilitazione nutrizionale, Naomi aveva raccontato le sue sensazioni inviando un messaggio ai suoi genitori: “Eccomi qui. Sono viva, ma sono felice? Non lo so”.
“Se non fossi venuta, sarei morta. Chissà come sarebbe stato”, si è chiesta mentre contava i giorni che la separavano dal suo ritorno a casa. Ma a casa, Naomi, non sarebbe potuta tornare, non fino a quando non avesse raggiunto un peso corporeo ideale. Contro il suo volere, la ragazza è rimasta in ospedale perché in Colorado, come in altri Paesi, un paziente può essere trattenuto anche contro la sua volontà se ritenuto incapace di prendere decisioni sulla propria vita, e sul proprio benessere.
Eppure Naomi lì non voleva stare. Iniziava a essere stanca, delusa e provata. Iniziava a credere che seguire lo stesso trattamento per l’ennesima volta non avrebbe cambiato nulla. Non lo aveva mai fatto. I tempi in cui sperava di salvarsi, quando era solo un’adolescente, erano ormai lontani. Aveva provato di tutto: dai percorsi alimentari supervisionati alle sessioni di terapia di gruppo.
Certo, queste l’avevano aiutata a capire le origini di quel disordine. Voleva essere una nuotatrice più veloce, per esempio, e voleva sentirsi speciale proprio come suo fratello che considerava il più intelligente della famiglia. Ma dopo anni trascorsi tra trattamenti, terapie e ospedali, neanche più le cause della malattia le sembravano importanti perché ormai aveva la certezza incrollabile che nulla sarebbe cambiato.
Dopo ogni ricovero ospedaliero, infatti, il peso tornava a diminuire. Aumentavano, invece, le diagnosi: anoressia di tipo binge-purg, gastroparesi, ipotensione, osteoporosi, disturbo ossessivo-compulsivo e disturbo bipolare.
Una vita da paziente
Alla soglia dei 30 anni Naomi è crollata. Non aveva passioni, interessi e amici, non aveva una vita. Era solo una paziente che viveva grazie e a causa delle sue malattie. “O morirò di anoressia o morirò di suicidio”, aveva raccontato al New York Times un po’ di tempo fa. E in effetti, a morire, ci ha provato davvero più di una volta.
In uno dei suoi tanti ricoveri, poi, ha sentito parlare di cure palliative, un’insieme di interventi assistenziali e terapeutici che vengono rivolti ai malati terminali quando i trattamenti medici non restituiscono più risultati o miglioramenti. Trattamenti che agiscono sul dolore, fisico ed emotivo, e che hanno come scopo quello di garantire una migliore qualità di vita ai pazienti e alla sua famiglia.
E se fosse stata quella la via d’uscita per porre fine a quello status di paziente per diventare una persona? Naomi si mise in contatto con il dottor Joel Yager, autore di uno studio scientifico che indagava la possibilità di inserire le cure palliative anche per i pazienti anoressici.
In una mail, inviata nel mese di febbraio del 2018, rivolgendosi al dottor Yager, Naomi scrisse: “Dopo 20 anni passati a provare la stessa cosa più e più volte aspettandomi risultati diversi, sono stanca di combattere”.
Il diritto di morire
Dopo svariati contatti e diversi incontri, il dottor Joel Yager decise di prendere Naomi come sua paziente e di supervisionare i suoi trattamenti. Pur riconoscendo tutti i disturbi della ragazza, anche quelli psichiatrici, la considerò comunque capace di intendere e di volere. Sicuramente il suo pensiero rispetto all’interruzione delle cure era lucido e non lasciava spazi a dubbi.
Il dottor Yager aveva già sperimentato dei test di capacità su pazienti affetti da anoressia grave, e più del 50% di loro avevano dimostrato una piena capacità mentale per prendere delle decisioni. Naomi rientrava tra questi, motivo per il quale aveva il diritto e il dovere di rinunciare alle cure standard e accedere a quelle palliative.
Iniziò, così, un periodo nuovo per Naomi. Finalmente poteva decidere di vivere secondo le sue regole e non quelle dei medici che, fino a quel momento, l’avevano seguita e curata. Ha continuato a prendere farmaci, ma ha smesso con la terapia psicologica e psichiatrica, perché stanca di ripercorrere quei vent’anni di malattia, perché ormai consapevole che quei trattamenti altro non facevano che aumentare la sua sofferenza.
Nel 2019, Naomi ha iniziato le cure palliative. Ha lasciato la sua fredda stanza di ospedale ed è tornata a vivere nella piccola casa dei suoi genitori nella periferia di Denver. Ha raccontato al New York Times che sua mamma e suo papà non sono mai stati pienamente d’accordo con la sua decisione, ma non li ha mai biasimati perché in loro ha sempre vista accesa la speranza. Quella che ormai lei non aveva più.
Le cure palliative, però, non hanno dato i risultati sperati, almeno non quelli che si auspicavano Evelyn e Hal, i suoi genitori. C’erano molte cose che Naomi si rifiutava di fare e di sperimentare, forse perché stanca e scoraggiata. Forse perché aveva già maturato in sé la convinzione di non voler più vivere quella vita.
Così nel 2022, Naomi decide di morire, o almeno ci prova. Nel giro di sole sei settimane, la ragazza viene ricoverata in ospedale per quattro tentativi di suicidio. Non si tratta di gesti sapientemente premeditati, ma di tentativi disperati di trovare un sollievo che nulla e nessuno le avrebbe più dato.
Il disturbo bipolare, e i problemi mentali, per un po’ misero in disparte l’anoressia, almeno agli occhi dei medici. Ma quella era ancora lì, come un mostro che la divorava dentro e dava quel che restava in pasto agli altri demoni.
Se neanche le cure palliative avevano funzionato, cos’altro le restava? Nell’articolo scientifico che l’aveva avvicinata al dotto Yager, l’esperto parlava anche di suicidio assistito, ritenendo che a un paziente in fase terminale di una malattia mentale dovrebbe essere concesso il diritto di morire.
Come lui, molti altri esperti del settore hanno riflettuto sulla possibilità di considerare l’anoressia grave come una malattia terminale. D’altro canto, però, il dibattito sul tema è molto aperto e ancora più ampio. In alcuni Paesi, per esempio, il suicidio assistito non è limitato esclusivamente ai pazienti con malattie organiche, ma anche a chi è affetto da patologie psichiatriche gravi che non possono essere trattate o alleviate attraverso cure mediche specifiche.
Su un articolo pubblicato su State of Mind, il giornale delle Scienze Psicologiche, si legge che su un’indagine condotta nei Paesi dove la procedura è consentita, il 2% delle richieste di suicidio assistito sono arrivate proprio da pazienti psichiatrici.
Anche Naomi potrebbe, e vorrebbe, entrare a far parte di quella percentuale. Negli ultimi anni ha iniziato a pensare alla morte assistita, al fatto che anche lei vorrebbe quel diritto, quell’unica possibilità capace di mettere fine a processo doloroso che dura da tanto, troppo tempo. “Non credeva più nella salvezza attraverso la lotta” – si legge su New York Times – “Non credeva che tutta quella sofferenza, un giorno, l’avrebbe portata in un posto migliore”. Non credeva più in nulla Naomi, neanche nella sua stessa vita, perché per la maggior parte di questa lei era stata la sua malattia e nient’altro.
Ha continuato a pensare a questo, Naomi. Al fatto che morire con un diritto acquisito, concesso e accettato, sarebbe stato sicuramente più dignitoso rispetto a quei modi che lei aveva già sperimentato, e che non avevano fatto altro che aumentare la sua sofferenza.