C’era una volta, neanche troppo tempo fa, una donna capricciosa, loquace e indomabile. Quella donna era anche definita impertinente e smorfiosa, troppo esuberante per quel tempo, per quei canoni di ideale e perversa perfezione imposti dal regime. Ma quella donna non era sola. Insieme a lei c’erano anche tutte le altre che non sapevano, o non volevano, adattarsi ai dettami del fascismo, che non rispettavano i doveri a loro imposti alla società. E tutte condividevano lo stesso destino: trascorrere i loro giorni all’interno di un manicomio.
Donne e manicomi: il tragico fil rouge della ribellione
Quello delle donne internate all’interno dei manicomi durante il regime fascista è uno dei capitoli più neri della storia, la nostra. Libri e documentari raccontano tutta la verità che si nasconde dietro gli episodi del ventennio che per troppo tempo è stata sepolta nella memoria, dimenticata. Perché forse così era più facile.
Eppure, quegli appellativi scelti per definire la donna che non svolgeva il suo ruolo, quello di madre e moglie, non ci stupiscono e sapete perché? Perché rappresentano esattamente quello stereotipo che stiamo cercando di sradicare, lo stesso che avvelena la nostra società come fosse un cancro. Quello che miete sempre le stesse vittime: le donne.
Ed eccole quelle storie vere che sembrano uscite da un film inquietante, quelle di donne considerate contro natura solo perché non avevano figli, o perché nascondevano le loro gravidanze, o perché ancora si sentivano libere, mentre il nostro Paese cercava di metterle con tutte le sue forze in gabbia.
C’è un documentario, dal nome I FIORI DEL MALE. Donne in manicomio nel regime fascista, realizzato da Annacarla Valeriano e Costantino Di Sante. Ci sono le foto e i video di quel periodo, ci sono le donne ricoverate nei manicomi d’Italia. Ci sono le parole utilizzate dai medici per giustificare quella follia divagante.
Si trattava, forse, di isteria collettiva? No, non in questo caso. Erano tutti lucidi quando ci definivano smorfiose, indomabili e ribelli. E per questo ci penalizzavano. Conoscere la storia di ieri, per riflettere sul punto in cui siamo oggi, è quindi doveroso.
C’erano una volta i manicomi
Un piccolo approfondimento sui manicomi è necessario, soprattutto per il modo in cui questi sono stati istituiti e gestiti. Prima della legge Basaglia, quella che ha sancito la chiusura dei manicomi e della segregazione degli altri, i manicomi venivano utilizzati per richiudere quelli che la società considerava soggetti pericolosi, ma non solo. L’alienazione, infatti, riguardava anche il pubblico scandalo, motivo per il quale era necessario condurre determinate persone ai margini della società.
Lì gli internati non erano curati, ma allontanati da tutto e da tutti, perché era questo l’obiettivo. E stando all’interno di un manicomio perdevano tutto: l’eredità, la possibilità di amministrare beni e patrimonio. Non potevano sposarsi, votare o essere genitori. Semplicemente, ogni loro diritto umano veniva annullato.
E poi, con l’ascesa del regime, ecco i nuovi inquilini degli altri, quelli scomodi al fascismo. I manicomi iniziarono presto a popolarsi di tutte quelle persone che ribellavano alle regole. Di donne. Del resto, il più aberrante esempio di come organizzare questa caccia alla follia, arrivava proprio dall’amica Germania che condannava tutte le persone che avevano “Vite indegne di essere vissute”, tra cui anche i malati mentali o quelli con patologie genetiche.
Ordine e disciplina
Ordine e disciplina sono le due parole con le quali il regime ha giustificato le sue scelte. Gli antifascisti e i sovvertivi non accettavano la propaganda nazifascista e per questo erano considerati folli. Era necessario allontanarli, per sempre, dagli altri. Una pulizia che veniva fatta per detenere il controllo e privare le persone della loro libertà. Ecco cos’è successo alle donne del nostro Paese.
Chiunque non avesse rispettato i propri ruoli, che per le donne si traducevano in totale sottomissione all’uomo come moglie e come madre, diventava in automatico una donna inutile per la società. Meglio ancora se pazza, così da poter essere internata.
Come un difetto di fabbricazione umana, così era considerato il sesso debole, con tanto di terapia di reclusione. L’obiettivo era quello di liberarle dalla follia e difendere la razza da tutte quei “Mediocri della salute” (Annacarla Valeriano in Malacarne).
E dietro alla follie delle terapie, che più che cure si trasformavano in vere e proprie torture, c’erano sempre loro: l’ordine e la disciplina.
Ida Dalser
Emblematica, per quegli anni e per noi oggi, è la figura di Ida Dalser, la testarda e l’impulsiva, una madre snaturata. La ribelle. Il nome non è nuovo, soprattutto per chi conosce le biografie di Benito Mussolini, perché di lui Ida fu l’amante. Il Duce, sposato con Rachele Guidi dal 1915, ebbe una storia extraconiugale dal quale nacque un figlio: Benito Albino.
Ida Dalser era una donna molto bella ed elegante. Dopo il diploma a Parigi in medicina estetica aprì a Milano un salone di bellezza basato sul modello francese. A Trento però conobbe il futuro Duce e da quel momento la sua vita cambiò per sempre.
Dopo la nascita del bambino nato durante quella relazione extraconiugale, Ida Dalser non si piegò mai al rifiuto di Mussolini e provò in tutti i modi a far valere i diritti del suo piccolo, pretendendo che il padre si assumesse le responsabilità di quel ruolo che gli apparteneva. Ma lui, non solo agì per escluderla dalla sua vita, ma anche dall’intera società.
Lei non si arrese, fino alla fine. Scriveva ai giornali, urlava per le strade e si recava sotto la casa del Duce per rivendicare le sue ragioni. “Mussolini ha deciso di internarmi col piccino”, scrisse la donna al direttore del Corriere della sera (Lettere di Ida Dalser a Luigi Albertini, a cura di Lorenzo Benadusi (volume) e Andrea Moroni (carteggio e apparati). Da Wikipedia), fornendogli così l’accusa su un piatto d’argento.
Ida Dalser fu così portata coattivamente in manicomio con l’accusa di turbare l’ordine pubblico. Benito Albino, invece, fu mandato in collegio senza mai più rivedere sua madre che morì all’interno di manicomio nel 1937. L’ennesimo delitto di regime era stato compiuto.