Chi mi conosce o mi segue lo sa. Amo New York, ancora prima che ci incontrassimo di persona. È stato un amore matto e disperatissimo nato, cresciuto ed alimentato da film cult come 1999 fuga da NY, C’era una volta in America, Harry ti presento Sally, o serie tv come Friends. Alicia Keys e il suo Empire state of mind mi fa da colonna sonora ogni volta che voglio darmi la carica prima di affrontare situazioni importanti oppure ho bisogno di cantare a squarciagola per tirare fuori le emozioni. Questa premessa è importante per farvi capire come la mia strada e quella di Annalisa Menin si siano incontrate. Lei aveva una pagina Facebook dal titolo stuzzicante, Il mio ultimo anno a New York, che rimandava ad un blog, dove raccontava le sue avventure nella Grande Mela e soprattutto poneva ai suoi lettori questa domanda: “Che faccio, rimango o torno in Italia?”.
Dai suoi post si capiva l’amore per la città che l’aveva accolta, e allo stesso tempo una sorta di strana malinconia che avvolgeva le parole. Mi ha incuriosito il suo modo femminile e italiano di raccontare quelle strade che anche io avevo calpestato, c’era un forte trasporto in tutto quello che descriveva, ma ogni foto che postava, ogni scorcio che descriveva parlavano di un’assenza, di una donna che stava provando a ricostruire sé stessa e il suo mondo attraverso quelle frasi buttate mai a caso nel web. Allora è successo che ho avuto voglia di conoscere di più questa ragazza dal sorriso enigmatico e dallo sguardo mai completamente felice, e mi sono persa tra le pagine del suo blog per capire chi fosse davvero e quali eventi le avessero attraversato la vita.
È così che ho conosciuto Marco. Il suo Marco. Quell’assenza così presente in ogni parola o descrizione, che fosse una serata tra amici, un aperitivo o la chiusura di una settimana lavorativa. Ho imparato a conoscerli in ogni serata raccontata, ma più scorrevo i post del blog più sentivo che stava per accadere qualcosa di brutto. Qualcosa di irreparabile. Come solo la morte riesce ad essere. Il matrimonio, la favola e poi la morte. Il tutto a New York lontana dall’abbraccio della sua famiglia. Il giorno dopo il suo trentesimo compleanno. È stato in quel momento che Annalisa è entrata prepotentemente nella mia vita, fatta di malattia e speranza, di voglia di farcela e di “ricominciarsi”. Già, perché la Menin non ha mai mollato, non ha mai arretrato di un centimetro, ha pianto tutte le sue lacrime, cercato carezze nelle pagine dei suoi social e alla fine l’affetto delle persone l’ha travolta e l’ha accompagnata nella stesura del suo primo libro Il mio ultimo anno a New York e adesso nella sua seconda fatica Il traghettatore che uscirà nel 2021 per Giunti. E io avevo tanta voglia di raccontarvela.
Ciao a tutte le lettrici di DiLei, mi chiamo Annalisa Menin e sono una scrittrice ed imprenditrice italo-americana. Vivo a New York dal 2006, sono arrivata qui grazie ad uno stage come tanti altri ragazzi/e prima di me. Solo che non sono più andata via.
Tu sei una bellissima giovane donna e difficilmente guardandoti si potrebbe capire che hai già vissuto molte vite. Vuoi raccontarci le tue ultime due?
Mah, bellissima non saprei. Ma mi prendo tutto il complimento. Direi che di vite ne conto già tre, alla veneranda età di 36 anni. A scandirle, due avvenimenti molto dolorosi, che sono però anche stati occasione di rinascita molto importante: a 18 anni, un incidente stradale che mi ha tenuta ferma tra letto, sedia a rotelle e stampelle, per quasi un anno. Poi la perdita di mio marito, il giorno dopo il mio trentesimo compleanno. Prima dell’incidente ero una ragazza di periferia che sognava la grande città, i viaggi, la cultura, la libertà. Ero spensierata e determinata, ed anche un tantino spregiudicata a dirla tutta, come solo i teenager sanno essere. Vivevo in una casa in campagna, nella provincia veneta, costruita con tanti sacrifici da mamma e papà. Due sorelle e un fratello più grandi. Quattro nipoti. Dopo l’incidente, la prima rinascita. Ho compiuto 19 anni a letto, imbustata in un gesso che mi fasciava buona parte del corpo. Nell’anno in cui sono stata ferma fisicamente, la mia mente ha invece viaggiato ovunque e non solo figurativamente. Grazie a internet, mi connettevo con il mondo intero. Ed è proprio lì che ne ho capito la potenzialità e la forza. Non appena mi sono rialzata, dopo tanta riabilitazione e pazienza, nell’imparare nuovamente a camminare e ad avere una vita normale, ho iniziato a pensare al mio futuro: ho cambiato indirizzo di studi all’università – da Lingue e Culture del Mediterraneo a Commercio Estero – ho preso la patente e, appena possibile, ho ricominciato a viaggiare. La prima tappa importante è stata la Germania, 10 mesi a Bamberg, in Baviera, grazie al Progetto Erasmus. L’anno successivo, siamo al 2006, è la volta di New York dove incontro, letteralmente appena scesa dall’aereo, un giovane brillante e caparbio: Marco. E poi la storia d’amore da favola e il lavoro e una città che amo. Ecco. A questo punto ci starebbe bene un bel “e vissero felici e contenti”. E invece… dopo soli 3 anni di matrimonio Marco si ammala di cancro e viene a mancare. Una doccia fredda, anzi ghiacciata. La fine stonata della mia favola perfetta. Ma io non sono una che si rassegna. Non poteva finire così. E allora rinasco ancora, per la seconda volta. Sfruttando tutte le conoscenze acquisite nel tempo da piccola nerd dei computer, inizio a scrivere sul mio blog Il Mio Ultimo Anno a New York, spinta dalla forte esigenza di raccontare, di condividere, e così di uscirne. Di buttarmi fuori dalla nube nera nella quale ero entrata. Un blog dunque, e poi un libro, che racconta la storia di Anna Venier (l’alter ego creato da Annalisa, ndr) giovane donna approdata a New York per uno stage, del suo amore per la città, e per Marco. Sì, perché Marco ritorna sempre, nella mia vita. E sempre lo farà, ne sono certa. Come nelle più belle storie d’amore, che non finiscono mai. Che vanno al di là del tempo e dello spazio. E così, arriviamo al 2020. E dopo quasi 15 anni a New York, la trasformazione continua. Ho fondato la mia agenzia creativa – The Yellow Tom – e ho dato un seguito alla storia della nostra Anna Venier, grazie ad un secondo libro.
Quando ti spezzano le ali, quando il tuo amore muore, quando il tuo sogno scompare come ci si rialza? Come si fa?
Si fa. Nel senso che è essenziale non rimanere immobili e fare qualcosa, qualsiasi cosa. Tenersi impegnati, con la mente e con il corpo. Io ho fatto di tutto: meditazione, yoga, percorsi di psicoanalisi, percorsi di crescita personale, personal training. Ho dipinto, cantato, camminato, aiutato, riso… e poi ho anche pianto. Tanto. Tantissimo. Mamma mia quanto ho pianto, per sfogare tutta la mia profonda tristezza per quella fine diversa da quella che volevo io. E per la quale non ho avuto il potere di fare nulla. È stato deciso per me. E allora, ho dovuto imparare a fare la cosa forse più difficile: accettare. Da lì, sono ripartita, forse ancor più spedita di prima, alla ricerca di nuovi stimoli, e di risposte alle mie mille domande. Dovevo dare un senso a quello che mi era accaduto. E così, un po’ come appena dopo l’incidente, ho preso la patente e sono partita per la Germania, dopo la perdita di Marco, mi sono messa a scrivere, ho messo in moto un’iniziativa charity, ho viaggiato. Ho ripreso la mia vita in mano, insomma. Sono ripartita da me. In entrambi i casi, avevo perso qualcosa, ma quella perdita l’ho trasformata in ricchezza. In realtà, l’ho capito dopo, non avevo perso niente. Perché le cose più importanti, erano ormai entrate dentro di me. E non mi lasceranno mai.
Annalisa e NY un amore che dura da quindici anni, qual è il segreto per viverla?
Io sono convinta che chi (soprav)vive a New York per un lungo periodo ha un conto in sospeso con la vita, di varia natura. Per me era, ed è tutt’ora, il farcela da sola. L’essere indipendente e libera. E poi il fare un buon lavoro, l’impegnarmi e il dare tutto per uno scopo più grande: questa è da sempre la mia guida, il mio motore, e New York in questo sa essere molto generosa. È come quel grande amore complicato, che vuoi con tutta la tua forza, ma che è anche molto difficile da portare avanti. A tratti incostante. Fatto di alti e bassi, dove gli alti sono davvero altissimi, e i bassi possono far sprofondare. Devi essere tu a guidarla, e non essere guidato da lei. Il segreto sta nel trovare quel compromesso dentro al quale riuscire a non perdere mai la propria identità, andando piano piano ad eliminare i bassi, equilibrando il panorama. Per me New York è sfida, e mi rendo conto che è proprio quello che ho sempre cercato, e continuo a cercare: quel qualcosa di più. È un po’ come se fossi sempre affamata, di nuove cose, di nuove esperienze, di nuovi punti di vista. Di vita. Ma c’é un però, e quel però si chiama Italia, che per me rappresenta invece le fondamenta. È sempre lì ad aspettarmi, e per quanto possa cambiare (lei, ed io!), è e rimarrà sempre la mia Terra. Ecco forse New York continua ad essere la mia casa da adulta, grazie alle forti fondamenta gettate nella mia casa da bambina.
Dopo la morte di Marco hai aperto un blog dal nome Il mio ultimo anno a NY dove chiedevi ai tuoi follower, ma forse soprattutto a te stessa se saresti dovuta rimanere o andare via. Cosa ti ha spinto a restare?
The next thing. Il prossimo progetto. Ogni qualvolta decido che è tempo di cambiare aria, inizio un nuovo progetto. E allora mi dico sempre “un altro anno”. Solo che qui gli anni passano! È la sfida, che mi mantiene qui, il poter fare sempre un pochino in più, l’evolvere, il migliorare. E dato che dicono che non conta la meta, ma il percorso che si fa, io continuo a vivere felice il mio percorso costellato di tanti splendidi progetti nella città che amo e che non mi ha mai tradita, neanche nei momenti più duri.
Dalla tua storia è nato un primo libro che è stato un grande successo, e adesso possiamo anticipare che ne uscirà un altro a cui auguriamo la stessa fortuna di cosa parla?
Sì. A proposito di progetti nuovi che mi fanno rimanere a New York, mi sono messa a scrivere una nuova storia, che rappresenta e racconta molto bene il momento di passaggio che sto vivendo nella mia vita, così simile a quello di milioni di persone là fuori: in bilico, indecisi, alla ricerca di una guida. Il libro, che si intitola Il Traghettatore e uscirà in primavera pubblicato da Giunti, è una storia moderna di vita vissuta. Ritroviamo sempre la nostra Anna Venier del primo libro, solo che questa volta è alla ricerca di un Traghettatore. Non posso dire altro. Chi mi segue sui social da tempo, ha già avuto qualche piccola anticipazione… io sono sicuramente di parte, ma credo che sarà una storia che rimarrà nel cuore.
Com’è il tuo rapporto con chi ti segue? Che cosa hai preso e cosa ti hanno dato?
In una parola: autentico. È un rapporto fatto di messaggi, email, whatsapp, review. E va sempre al di là della superficie. Non si tratta mai “solo” del libro o del blog o di New York. Mi scrivono molto spesso donne che, come me, hanno perso una persona cara. La domanda è sempre la stessa, che poi è quella che anche tu mi ha fatto: come si supera una perdita? Perché anche un divorzio, un amore che finisce, un’amicizia che si interrompe, posso essere perdite. La mia risposta è sempre la stessa: non c’é una formula magica. Serve tempo e attività, di cuore, di testa e di corpo. Ma non c’é solo questo. Sai, nel tempo ho cercato di evolvere, di andare al di là di quello che è successo con Marco. Non sono certo l’unica ad aver perso una persona cara. E allora mi piace molto rivolgermi alle donne, farle sentire “piene”, adatte, giuste, invincibili. Vengo da un ambiente chiuso e da una mentalità non di larghe vedute. Per quello ho sempre amato così tanto la libertà. E proprio per quello stesso motivo cerco, nel mio piccolo, di ispirare chi sta intorno a me ad essere molto più “grandi” di quello che pensano. Abbiamo davvero infinite possibilità oggi, se comparato ai nostri genitori o nonni. E queste possibilità dobbiamo trasformarle in opportunità. Ecco, il dialogo con il mio pubblico si sta spostando anche in questa direzione, che sento molto mia. Insomma, il mio pubblico mi ha dato tanto, e spero anche io di aver dato altrettanto. Ma soprattutto, spero di continuare a dare ancora. Ad evolvere, ad avere sempre una voce, qualcosa da dire, da fare, da condividere.
Dalla morte di Marco hai voluto far nascere un qualcosa che ricordandolo facesse del bene agli altri, ne hai parlato brevemente prima. Ci racconti qualcosa in più?
Certo. Non appena Marco è venuto a mancare in tantissimi hanno donato somme di denaro per la ricerca sul cancro. L’idea era, per l’appunto, di fare qualcosa di buono. Il primo anno abbiamo finanziano un borsa di studio in collaborazione con l’Università di Bologna, Ospedale Sant’Orsola Malpidi. Il secondo anno abbiamo invece collaborato con il prestigioso Weil Cornell Hospital di New York per un’altra borsa di studio. Dal 2016 invece è iniziata una splendida collaborazione con la maison Valentino USA, che mi permette ogni anno di selezionare uno studente o studentessa di Università Politecnica delle Marche per uno stage di sei mesi (estendibili fino a 12). Una splendida opportunità per questi ragazzi e un bel modo per ridare ad altri la stessa opportunità che io e Marco abbiamo avuto a nostro tempo. Per questo ringrazio Carmine Pappagallo, storico C.F.O. di Valentino USA che per tanti anni ha lavorato fianco a fianco con Marco e ha creduto in questo progetto che mi ha permesso di portare avanti la sua memoria.
Quando hai perso Marco le persone hanno iniziato a guardarti in modo diverso? Non come una giovane donna che in ogni caso poteva farcela, ma come una vedova che non si sarebbe mai rialzata?
Mah, forse qualcuno avrà anche pensato che non mi sarei più rialzata. Ma evidentemente non mi conosceva bene. Non lo dico con spregiudicatezza, anzi. Lo dico con la consapevolezza di chi ha gestito una perdita enorme come questa fondamentalmente da sola. Sì, avevo tantissime persone intorno, ma la realtà è che in questi casi tanti amici scompaiono. Non se la sentono di starti vicino, o magari non sono in grado di farlo. Io poi ero lontana dagli affetti veri e così mi sono focalizzata sul lavoro, e su di me. Avevo solo due obiettivi chiari in testa: fare in modo che Marco non venisse dimenticato e non lasciarmi andare e riprendere a essere leggera. Ho fatto molta fatica, ma con grande orgoglio, a quasi sette anni di distanza dalla sua scomparsa, posso dire che grazie alla storia di Anna e Marco e a Il Mio Ultimo Anno a New York Marco non sarà mai dimenticato e, anzi, ha forse conosciuto più persone dopo la sua scomparsa, che prima e che no, non mi sono lasciata andare, anche se più volte avrei voluto. Anche se sembrava che nulla avesse senso, ad un certo punto. E ora sono qui, leggera.
Per finire vorrei che tu ci lasciassi con un messaggio di speranza, un messaggio motivazionale per tutte quelle persone che pensano di essere finite…
Solo la morte mette un punto. Noi no. Non possiamo. Noi siamo dentro a quel circolo vizioso che si chiama vita, fatto di tanti inizi e di altrettante fini. Insomma, non è mai finita per davvero, fino a che continuiamo a lottare, a credere, a sognare. Ad aprire i nostri occhi, sul serio. Da un letto di ospedale, da una stanza buia, da un prato innevato, dalla cima di una montagna. Pensate a Bebe Vio, Manuel Bortuzzo, Andrea Stella e ovviamente Alex Zanardi. Perché sono questi gli eroi moderni, quelli che vanno avanti, nonostante tutto, prova vivente che a vincere è chi si “concentra su quello che rimane e non su quello che ha perso” (per citare proprio il grande Alex). Ovunque voi siate: andate avanti. Che la vita è bella, bellissima, perché ti toglie, ma ti dà anche. E fatela sentire la vostra voce, che il tempo per il silenzio non mancherà. Lasciate la vostra impronta, piccola o grande non importa. Make the difference, come diciamo qui, a New York.