Il 7 febbraio 2025, una ragazza di 15 anni, studentessa di un istituto superiore del Trentino, ha vissuto un episodio che ha segnato la sua vita scolastica e non solo. La giovane, mentre si trovava in aula, ha assistito a un episodio che non avrebbe mai dovuto verificarsi. Il professore, durante una lezione, si è avvicinato al suo banco e, restando in piedi, ha diretto le proprie parti intime verso il viso della studentessa, dicendo la frase: “Apri la bocca che ti metto il gettone”.
Per giorni, la ragazza ha taciuto, troppo spaventata e vergognosa per raccontare a qualcuno quanto le fosse accaduto. È stato solo un mese dopo, il 7 marzo, che si è finalmente confidata con i suoi genitori. La madre e il padre, sconvolti e preoccupati, hanno deciso di agire, con l’intento di proteggere la propria figlia e impedire che simili episodi accadessero ancora.
Il 10 marzo, i genitori si sono recati a scuola per parlare con la dirigente scolastica e cercare di ottenere chiarimenti e un intervento tempestivo. In quella sede, il professore ha inizialmente negato l’accaduto, ma quando è stato confrontato con la ragazza, ha ammesso di aver detto la frase riguardo al “getto”, ma cercando di giustificarsi dicendo che l’aveva fatto perché si sentiva “esasperato”. Nonostante il confronto diretto, la dirigente scolastica non ha preso provvedimenti concreti e il professore ha continuato a insegnare senza alcuna sospensione. Una decisione che ha lasciato perplessi e amareggiati i genitori della ragazza. Il 21 marzo, sentendosi ignorati dalla scuola, i genitori hanno deciso di presentare una denuncia formale presso la caserma dei carabinieri. La ragazza, accompagnata dalla madre e dal suo avvocato, ha formalizzato la denuncia nei confronti dell’insegnante. È emerso, inoltre, che il professore aveva avuto un atteggiamento inappropriato anche in altre occasioni, chiamando la ragazza con soprannomi affettuosi come “amore”, comportamento che ha inquietato ulteriormente la famiglia.
Nel frattempo, la ragazza ha sofferto molto in seguito a questi episodi. Ha iniziato a vivere l’esperienza scolastica con crescente disagio e ansia, tanto da evitare del tutto di frequentare le lezioni del professore in questione. La scuola ha cercato di “risolvere” il problema affiancando un altro insegnante al professore coinvolto, ma la soluzione non ha convinto i genitori, che ritengono che il danno psicologico subito dalla figlia non possa essere ignorato o sminuito.
Il 18 marzo, tramite l’avvocato, è stata inviata una PEC alla scuola e alla provincia di Trento, sollecitando una risposta riguardo ai provvedimenti che si intendevano prendere nei confronti del docente. La famiglia chiede che vengano adottati provvedimenti urgenti, come la sospensione cautelare dell’insegnante e l’adozione di misure per garantire la sicurezza e la serenità della giovane studentessa.
L’insegnante coinvolto in questa vicenda ha continuato ad insegnare senza alcun intervento disciplinare significativo da parte dell’istituto. La madre della ragazza ha sottolineato che, purtroppo, nonostante la denuncia, si è sentita molto sola in questa battaglia, con la scuola che non ha preso la situazione con la serietà che meritava.
La vicenda ha sollevato un importante dibattito sulla sicurezza nelle scuole e sul modo in cui le istituzioni affrontano episodi di molestia e abuso, anche quelli che sembrano essere di natura verbale. La famiglia continua a lottare per giustizia, affinché l’episodio non venga ignorato e altre giovani studentesse non debbano subire esperienze simili.
Questa storia, purtroppo, non è un caso isolato, e ci ricorda l’importanza di garantire un ambiente scolastico sicuro e rispettoso per tutti gli studenti, senza eccezioni.
A volte la violenza non è un pugno, non è un livido sulla pelle. A volte è una frase, un gesto che ti esplode dentro, che ti lacera l’anima a 15 anni mentre sei seduta nel banco di scuola, convinta che l’unico compito che hai è imparare a sognare. Invece, un pomeriggio di febbraio, una ragazzina si è trovata davanti l’incubo, travestito da professore: parti intime puntate al viso, e quella frase vomitata addosso: “Apri la bocca che ti metto il gettone.” Lei si è pietrificata, come spesso succede. Non ha detto niente. Non ha avuto nemmeno la forza di alzare la mano per chiedere aiuto. E per un mese intero, ha cercato di ingoiare quel dolore da sola, pensando fosse colpa sua, come fanno troppe adolescenti educate più alla vergogna che al coraggio. Poi, un giorno di marzo, ha guardato i suoi genitori e ha trovato la forza di raccontare, il gelo, la rabbia, l’impotenza. La decisione immediata di non voltarsi dall’altra parte: andare a scuola, parlare con la dirigente, pretendere giustizia. E invece, il 10 marzo, si è consumato l’ennesimo abuso, invece di proteggere la vittima, hanno organizzato un confronto diretto: la ragazza faccia a faccia con il suo professore. Lui, che prima ha negato, poi ha minimizzato: “Che gettone avevo in mano?” E ancora: “Quando sono esasperato uso un linguaggio volgare, piccante.” Come se esistesse un’esasperazione abbastanza grande da giustificare quella frase oscena rivolta a una minorenne. Poi sono stati chiamati anche due compagni, uno ha testimoniato di essere stato a sua volta vittima di domande oscene, fuori da ogni decenza “quante volte ti masturbi al giorno?” L’altro ha confermato il linguaggio volgare, l’atteggiamento inopportuno.
E la scuola? Silenzio. Sguardi bassi. Unica soluzione: affiancare un altro adulto durante le sue lezioni, come a dire: “Non ci fidiamo di lui, ma non possiamo neppure rinunciare a lui.” E la ragazza? Costretta a evitare quelle lezioni. Penalizzata anche nel rendimento scolastico, come se la colpa di tutto fosse sua.Il 21 marzo la denuncia formale, l’avvocata della famiglia ha inviato anche una diffida, chiedendo con urgenza provvedimenti concreti, ma da quel giorno niente è cambiato. Il professore è ancora lì, libero di camminare per i corridoi, di lanciare sguardi, di far sentire una ragazzina inadeguata e sola, perché non servono sempre mani addosso per lasciare cicatrici. Questa madre, che chiede solo anonimato per proteggere la figlia, racconta un dolore che si taglia con il coltello, racconta notti in bianco, racconta una figlia che scrive lettere incorniciate per urlare un dolore che nessuno vuole ascoltare, racconta la fiducia tradita anche da chi avrebbe dovuto aiutarla: la scuola, la psicologa, il sistema. E racconta la paura che possa succedere ancora, ad altre figlie, perché chi deve vigilare, ha preferito guardare da un’altra parte. Perché a volte, il peso del silenzio è più violento della frase più sporca, e oggi, questa ragazza di 15 anni, mentre il professore continua a insegnare, continua anche a chiedersi se è stata lei a sbagliare.

No, piccola, non sei tu quella sbagliata. E non servono né foto né registrazioni per crederti. La tua parola, la tua paura, il tuo dolore gridano abbastanza forte da riempire ogni vuoto di coraggio che chi doveva proteggerti non ha saputo colmare. Questa volta non possiamo tacere, perché il “gettone” che ha cercato di infilarti a forza non si chiama moneta: si chiama vergogna, e noi vogliamo restituirtela tutta, quella dignità che ti hanno provato a portare via.