Ottobre ormai da un po’ di tempo è il mese dedicato al lutto perinatale: non tutti lo sanno, ma quelle come noi se lo ricordano bene. Quelle come noi sono le donne che hanno perso un figlio durante la gravidanza, che sono passate dalla gioia immensa della scoperta di una nuova vita che cresce, alla devastazione di un battito che si ferma.
Ci è voluto un mese dedicato alla sensibilizzazione di questo lutto per cercare di educare le persone a questo dolore grande, a questo dolore che ti mangia da dentro, e che spesso viene sottovalutato e non capito anche da chi ti sta vicino.
Perché la pancia è tua, quella pancia che da culla si trasforma in tomba, quella sensazione di vuoto che all’improvviso ti porti dietro e accompagna le giornate, quegli scatoloni pieni di quello che poteva essere e che non sarà mai, quelle scarpine rosa appoggiate sul comodino, che vorresti mettere via, ma non ci riesci, perché sono l’ultimo tassello di una felicità che non ti appartiene più.
Perché quando le guardi ricordi esattamente il giorno in cui le hai comprate e riesci anche a provare quella gioia per un attimo, un solo momento prima che tutto scompaia e il pianto ritorni, quelle lacrime che scendono in silenzio e ti sconquassano il corpo. E se a decidere di interrompere quella gravidanza sei stata proprio tu dopo una diagnosi di incompatibilità con la vita, oltre al dolore c’è il senso di inadeguatezza, il senso di colpa, che ti accompagnerà per sempre. Perché non hai saputo proteggere tuo figlio dal male, hai dovuto scegliere quando farlo morire e questo non potrai mai perdonartelo. Sono dolori che nessuno sa.
“Ciao piccola mia, oggi sono diciannove anni che non sei nata, non sono riuscita nemmeno a darti un nome sai, non ho fatto in tempo, stavo entrando nel quinto mese e non sapevo che saresti stata una bambina, ce l’hanno detto all’ecografia di secondo livello, quella che ci hanno fatto dopo che, alla prima, hanno trovato qualcosa che non andava.
Pensare che quel giorno siamo andati tutti insieme dalla ginecologa, c’era anche la tua sorellina Donatella, aveva un anno e mezzo, ti sarebbe piaciuta tanto sai? E ti avrebbe amata come solo lei sa fare. Fuori c’era il sole, non una nuvola, niente, anche l’aria sapeva di buono, e noi avremmo visto il tuo viso, e forse avremmo anche scoperto il tuo sesso.
E invece no. Mi ricordo la sonda sulla pancia, la mia dottoressa che gira e rigira sulla tua testa, chiama una collega, poi un’altra, e insieme bisbigliano, ed io sarei voluta morire lì, in quel preciso instante, perché in quell’assenza di parole c’era tutto quello che poi è diventato realtà.
Mi ricordo il termine Igroma cistico, idrope fetale, ma facciamo una villocentesi per esseri sicuri, ero alla fine del quarto mese. Per due settimane ho vissuto come un’automa, la notte ti accarezzavo prima di andare a dormire e la mattina ti parlavo appena sveglia, perché ci ho sperato. Ho sperato che si fossero sbagliati, ma la diagnosi era corretta, tu avevi il 95% di possibilità di morire nella mia pancia, o appena nata, il 5% di vivere attaccata a dei tubi.
Io e il tuo babbo ne abbiamo parlato tanto, ma tanto davvero, abbiamo valutato ogni possibilità, ma non potevo immaginare la tua esistenza legata a dei macchinari, senza la possibilità di interagire, senza la possibilità di scegliere. Allora ho scelto per te. Ho scelto che tu fossi libera. Libera dalle sofferenze, libera dal dolore, libera da una vita che non ti ha meritata. Perché noi ti amavamo già tanto, ma non siamo stati abbastanza forti da rischiare di farti nascere e di perderti subito dopo.
Sono entrata in ospedale con il tuo papà che non mi ha mai lasciata sola, mi hanno dato delle pasticche, messo un gel e lasciata in una stanza. Ogni tanto mi affacciavo e vedevo le altre donne con il pancione camminare nel corridoio e sarei voluta solo scomparire: loro stavano dando la vita, io ti avrei dato la morte. Ad un certo punto sono cominciate le contrazioni, forti, sempre più forti, e poi ti ho sentito andare via, ho sentito proprio il distacco.
Poi non ho sentito più niente. Per giorni. Mesi. Anni. L’ostetrica è arrivata ti ha raccolta e portata via da me dentro un panno, io non ti ho voluta nemmeno guardare, non so nemmeno di chi sarebbero stati i tuoi occhi, o le tue labbra, di che colore avresti avuto i capelli, non saprò mai se saresti riuscire a sopravvivere anche solo per farti abbracciare, o se la mia pancia si sarebbe trasformata nella tua tomba. So che quel giorno sono morta con te, per rinascere senza un pezzo, per il resto della mia vita.
Adesso lo so, ti avrei chiamata Giulia, perché tutte quelle che conosco e portano quel nome, sono delle donne meravigliose e felici.
Giulia, se riesci perdonami almeno tu.
Perché io non sono mai riuscita a farlo.