La storia di Archie Battersbee, che avrà per sempre 12 anni

I medici il 31 maggio hanno sentenziato che Archie non sarebbe mai più tornato, che il suo encefalogramma era piatto

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Irene Vella

Giornalista televisiva

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Il bellissimo viso di Archie Battersbee ha fatto capolino dalle pagine del mio pc all’incirca una settimana fa, mentre stavo facendo la rassegna stampa quotidiana. Impossibile non fermarsi a leggere la notizia e, lo confesso, dopo averla scrutata da cima a fondo, mi sono pentita di averla trovata, perché sapevo che quella storia mi sarebbe entrata nell’anima, perché quegli occhi così profondi e riflessivi si erano già fatti strada nei meandri della mia coscienza, e perché è bastato ascoltare le parole di sua madre una volta, per immedesimarsi nel suo dolore e nella sua disperazione. E suo figlio in un attimo è diventato, anche, figlio mio.

Mi sono chiesta cosa avrei fatto io se mi fossi trovata al suo posto, mi sono chiesta fino a che punto è giusto che un tribunale possa decidere le sorti di un bambino minorenne al posto dei genitori, mi sono posta la questione etica e morale, cioè fino a che punto fosse giusto continuare a tenere in vita un ragazzino dichiarato morto a livello cerebrale, quanto potesse essere definito accanimento terapeutico, quanto fiducia assoluta nella medicina e quanto speranza in un miracolo.

E non sono riuscita a darmi una risposta che fosse univoca, perché per quanto in una situazione analoga, il caso di Alfie Evans, il bambino di due anni affetto da una malattia neurodegenerativa concordassi sull’operato dell’ospedale (per chi non se lo ricordasse Alfie ha vissuto quasi tutta la sua breve vita incosciente attaccato ad una macchina), qua la situazione era diversa, o almeno il mio modo di percepirlo è stato completamente differente.

Archie non era affetto da una malattia, Archie era un meraviglioso bambino appena entrato in quella fase che non si può definire adolescenziale a tutti gli effetti, in quel pezzo di vita in cui ti senti grande, ma ancora giochi con i peluche, quando in una mano tieni uno smartphone e ti colleghi ai social e dall’altra cerchi l’ultima carta dei Pokemon per finire la tua collezione. Archie era esattamente a quel punto lì, quello della via di mezzo. Era bello Archie, di quella bellezza acerba in cui una madre riesce a scorgere il suo futuro, riesce ad immaginare quello che potrà essere, quello in cui i sogni di un figlio iniziano a scontrarsi con quello dei propri genitori, quello in cui la mattina ti odiano perché li hai svegliati troppo presto e la sera chiedono di dormire con te nel lettone per aver visto uno zombie di passaggio nello schermo del pc. Lo si vede anche dalle immagini postate dalla mamma, Hollie Dance, ci sono ancora i selfie con lei, le pose sparate per sembrare più grande, e quelle con i suoi pupazzi, segno tangibile della sua età. E poi ci sono quelle più crude, scattate nel letto di ospedale, quelle in cui Archie sembra “solo” dormire, un sonno più lungo di altri, il sonno dei giusti, quello che si intravede da quelle ciglia così lunghe e perfette, da quella pelle di porcellana, da quei capelli così ben sistemati, perché la morte cerebrale questo fa, ti illude, ti fa sembrare che ancora tutto sia possibile, anche un risveglio, ti fa scorgere la vita in un movimento che per i medici è “solo” un riflesso incondizionato, perché anche solo il fatto di poterlo ancora vedere ed accarezzare ti fa sperare che un giorno magari avverrà il miracolo, che lui si risveglierà.

Perché Archie non era stato colpito da leucemia fulminante, ad Archie non era stata diagnosticata una malattia neurodegenerativa, Archie era uno splendido dodicenne che scoppiava di salute e di vita, che in un pomeriggio di aprile, ha deciso di partecipare ad una sfida maledetta, una di quelle che tanto spopolavano su Tik Tok, si è legato una corda intorno al collo, ed è così che la mamma lo ha trovato, in cima ad una rampa di scale, privo di sensi, in un coma che lo ha avvolto e stravolto, in mesi di sonno che hanno cancellato il suo meraviglioso sorriso, hanno spento le sue funzioni cerebrali, e trasformato il suo giaciglio nella sua ultima dimora, come un principe azzurro dormiente.

Da quel 7 aprile 2022 sono passati quattro mesi, mesi in cui tutti hanno sperato che il miracolo avvenisse, che quel figlio così tanto amato, tornasse ad essere se stesso, che tornasse comunque “ad essere”, ma i medici il 31 maggio hanno sentenziato che Archie non sarebbe mai più tornato, che il suo encefalogramma era piatto, e che l’unica risposta possibile era quella impossibile anche solo da immaginare per un genitore: staccare le macchine che lo tenevano in vita, che respiravano per lui, che lo facevano sembrare vivo, ma che, invece, mistificavano solo la cruda realtà: Archie era morto.

Ma come fa un genitore a vedere la morte in quello che sembra un sonno prolungato? Come fa una madre a decidere di staccare la macchina che le dà ancora la possibilità di accarezzare suo figlio? Come fa una mamma a uccidere la speranza? Come fa una mamma che quel bambino lo ha messo al mondo, lo ha nutrito, amato, cresciuto, a decidere di togliergli il respiro che lo tiene ancora lì con lei?

Non può, una madre non può. Non ce la fa. Non ce la può fare. Perché quattro mesi sono troppo pochi per abituarsi ad un’assenza che sarà per tutta la vita, perché umanamente non si può che stare dalla sua parte, dalla parte di una madre che sa che staccare quella spina significa veder morire il proprio figlio, anche se magari lui è già morto da tempo, ma tu lo vedi, tu lo senti, tu puoi ancora dargli il bacio della buonanotte, anche se questa notte sarà eterna. Ed è così che Hollie ha visto il suo bambino, fino alla fine, fino a quel tragico momento in cui le macchine sono state staccate, il momento in cui quel sonno ingannatore si è trasformato in quello che, forse, era già: la morte.

È difficile, drammaticamente difficile se non impossibile, non immedesimarsi nel dolore di questi genitori, in una decisione sulla vita del proprio figlio che li ha visti solo spettatori, che li ha privati anche della speranza di una dolce morte in un Hospice (quello che in terzo grado di giudizio avevano richiesto, un luogo vicino casa dove poter accompagnare il proprio figlio nel suo ultimo viaggio). Perché è più facile decidere della vita (o della morte) di qualcuno, se questo qualcuno non è tuo figlio. Perché forse Hollie aveva solo bisogno di più tempo per salutare per sempre il suo bambino, quel bambino che, forse, anche lei, sapeva, non sarebbe tornato mai più. Perché in questa storia non ci non né vincitori, né vinti, c’è solo lo strazio di una morte assurda e di un dolore che non avrà mai fine. Buon viaggio piccolo Archie.