Oggi è il giorno dopo, il giorno dopo la morte, quella che spezza la speranza, brucia sogni e trascina all’inferno, quello vero, quello reale, quello che toglie il respiro, quello che ti fa chiedere “Perché? Perché noi?”, e l’unica cosa che ho imparato in questi anni di malattia e di dolore è che esiste un unico modo per fregar la morte: la vita. Ed è quello che ancora una volta questa meravigliosa famiglia ci sta insegnando, darsi uno scopo, tirare fuori qualcosa che dia un senso a questo dolore che ti strappa la pelle, unirsi per sopravvivere e provare a salvare tutte le altre migliaia di Giulia là fuori, quelle che non sanno di essere in pericolo, o quelle che, pur sapendolo, non riescono o non sanno come chiedere aiuto. Io non lo so come si faccia a cambiare la mentalità di certi uomini, che lo sono solo di nome, non so nemmeno come si possa sradicare la concezione che certe persone hanno dell’amore, perché no, l’amore non avrà mai niente a che fare con il possesso, niente a che fare con la violenza psicologica, niente a che fare con la coercizione, e non so nemmeno quale sia la reazione giusta da avere dopo un lutto così grande, perché probabilmente non ne esiste nemmeno una, perché le reazioni fanno parte delle emozioni, e queste, come ogni cosa che riguardi la sfera dei sentimenti è personale.
E no, non è nemmeno giusto dire “Io se mi trovassi in quella situazione agirei così”, perché non si può mai sapere come ognuno di noi reagirebbe di fronte ad una tragedia così enorme, perché certi dolori vanno indossati, e solo allora, solo in quel momento si avrà il diritto di esprimere un parere, perché l’onda emotiva quando sei al di fuori ti può travolgere, ed invece bisognerebbe fermarsi, prestare ascolto, e rispettare il dolore altrui. E questo è proprio quello che Gino Cecchettin e la sua famiglia ci stanno insegnando, la forza della dignità, il potere della bontà, che anche di fronte alla morte che tutto spazza riesce a dire: “Adesso penso a Giulia e alle tante Giulie che ci sono nel mondo. Non provo rancore o odio, non provo nulla. Spero che lui (Filippo, ndr.) si renda conto di quello che ha fatto e campi duecento anni. Per pensarci. Non posso escludere che la amasse, ma lo faceva nel modo sbagliato. Se si renderà conto, proverà dolore”. Queste sono parole che colpiscono così profondamente da lasciarci quasi attoniti, perché siamo abituati al dolore urlato, alla voglia di vendetta, all’occhio per occhio, che una reazione così composta e, oserei dire, quasi sovrumana, ti sconquassa, mettendoti di fronte alla grandezza di certi animi.
Come lo zio di Giulia, Andrea, che abbraccia il papà di Filippo durante la fiaccolata, un gesto fatto volutamente lontano dalle telecamere, una presenza che solo successivamente proprio dallo zio è stata svelata, come a volerlo proteggere dall’odio che in questi giorni li ha travolti, ribandendo che “No, non è colpa vostra”. Devo ammetterlo in un primo momento certe affermazioni di quest’uomo non le avevo digerite, “Filippo era una bravo ragazzo, non ha mai torto un capello a nessuno, era un po’ ossessionato, ma una cosa normale”, mi avevano fatto indignare, l’appello poi fatto tramite il legale “Filippo torna, così potrai dare la tua versione dei fatti”, e l’ultimo quando il cadavere della ragazzina era stato recuperato: “Filippo era sempre gentile con lei, le preparava anche i biscotti”. Ecco, questo mi aveva proprio fatta incazzare, perché Giulia non avrebbe mai potuto dare la sua versione, non avrebbe mai potuto raccontare la sua storia, e la sua morte. Perché Giulia non ci sarebbe stata mai più. Poi ieri sera ho sentito le parole Nicola Turetta, il padre di Filippo, di fronte alle telecamere con lo sguardo abbassato ha detto: “Forse avrei preferito che la storia finisse in un altro modo”, lasciando intendere che avrebbe preferito che suo figlio si fosse suicidato, e, per la prima volta, ho provato un dolore sordo anche per lui. Quanto devi essere devastato per dirlo? Io che ho sempre provato empatia solo ed esclusivamente per la famiglia di Giulia, dopo aver ascoltato quella frase, che usciva dal cuore, ho fatto un passo indietro, ed ho provato pena.
Perché sì questa è una tragedia così grande da superare qualunque confine emotivo, anche quella delle certezze granitiche che ognuno di noi ha, e ti costringe a guardare questo dramma per quello che davvero è, un delitto atroce che ha rovinato e condannato per sempre due famiglie, una che dovrà convivere con il senso di colpa per aver generato un figlio assassino, e l’altra che dovrà farà i conti con il dolore e l’assenza di una figlia, sorella, nipote che non tornerà mai più. Sperando che davvero, almeno per una volta, la giustizia faccia il suo corso. Perché questa è l’unica paura e l’unico punto interrogativo di questa storia. La certezza della pena.