Diana, morta di stenti, la madre in aula: “Pensavo che il latte bastasse”

Alessia Pifferi racconta quando ha trovato la figlia in fin di vita: «L'ho accarezzata, non si muoveva e ho tentato di rianimarla»

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Irene Vella

Giornalista televisiva

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

La storia di Diana Pifferi, la bambina di 18 mesi lasciata morire di stenti dalla propria madre, Alessia Pifferi di anni 38, è uno di quesi casi di cronaca nera che, una volta raccontati, ti entrano sotto pelle, per rimanere attaccati nei meandri del cuore, perché gli ultimi giorni di vita di questa bambina sono peggio di qualsiasi sceneggiatura di un film dell’orrore. Con un’unica grande differenza: quello che è accaduto a Diana è la realtà. Lasciata da sola per sei lunghi giorni da quella che, di fatto, avrebbe dovuta proteggerla e accudirla, dentro a un lettino con accanto un biberon pieno di tranquillanti, per toglierle anche la possibilità con un lungo pianto di farsi sentire dai vicini e salvarsi, questo cucciolo d’uomo è riuscita a sopravvivere per 144 ore in solitudine, per poi chiudere gli occhi e non riaprirli mai più.  Mi sono chiesta spesso cosa, questo scricciolo di 540 giorni appena, abbia provato nei suoi ultimi istanti di vita, quali emozioni le avranno lacerato l’anima, se avrà capito, sperato, chiamato la mamma, se si sarà resa conto di quello che le stava succedendo, se avrà pianto, oppure, come sostenuto in un primo tempo dagli esiti dell’autopsia, sotto gli effetti delle benzodiazepine, si sia lasciata andare a un sonno sempre più lungo, fino all’ultimo, quello dal quale non si è risvegliata più.

In questi giorni Alessia Pifferi si è presentata nell’aula della Corte d’Assise a Milano, per rispondere alle domande dei pubblici ministeri. La 38enne è accusata di omicidio volontario, aggravato dall’abbandono, nei confronti della figlia Diana, morta di stenti a 18 mesi tra il 14 e il 20 luglio 2022 nella sua abitazione di via Carlo Parea, nella città meneghina. La donna ha raccontato ai pm il momento in cui è rientrata a casa e ha trovato la piccola in fin di vita. “Sono andata subito da mia figlia. L’ho accarezzata ma ho visto che non si muoveva, non era in piedi come le altre volte. Non era fredda la bambina. Ho tentato di rianimarla, le ho fatto il massaggio cardiaco. Le spruzzai anche un po’ di acqua in bocca ma non si riprese e corsi a chiamare una vicina di casa”. Ho guardato più volte il video dell’interrogatorio per cogliere nel viso di questa donna un segno di pentimento, quello espresso a parole e che tanto le fa comodo, per tentare almeno una riduzione della pena: “Tornassi indietro non lo farei più, ho capito che non dovevo lasciarla sola”, ma non sono riuscita a scovarlo, non sono riuscita a provare un minimo di empatia, di pena o di pietà nei confronti di questa persona.

Non sono uno psicologo e nemmeno uno psichiatra, quindi non ho davvero gli strumenti per capire se questa donna abbia qualche ritardo mentale, sia incapace di intendere o di volere. Ma vedo una premeditazione nel drogare il latte di questo esserino per non farlo piangere ed essere scoperta. Nelle successive domande il pm le chiede se lei fosse consapevole dei rischi connaturati all’abbandono di una bambina così piccola, e l’unica cosa che la Pifferi risponde di continuo è: “Pensavo che il latte le bastasse… non volevo che morisse…non pensavo che potesse succedere… anche se sapevo che poteva succedere qualcosa di brutto (questo l’ha ripetuto spesso poco dopo essere stata arrestata)”. Quindi onestamente quello che si evince è che la donna sapesse bene quali potevano essere le conseguenze dei suoi atti, solo che, avendolo già fatto in precedenza, ed essendole sempre andata bene, ha continuato a sfidare la sorte, alzando l’asticella dei giorni di abbandono. Sempre di più.

Io la guardo parlare di sua figlia nel video, e non vedo una lacrima, non sento la voce tremare quando racconta il momento in cui rientra in casa e la trova immobile nel letto, non intravedo un briciolo di umanità nei suoi occhi mentre rivive gli ultimi istanti dell’esistenza martoriata della sua bambina, non fa una piega quando dice di averle praticato il massaggio cardiaco, le sue parole non si interrompono al ricordo di Diana inerme, e no, non riesco davvero a provare un’humana pietas nei suoi confronti, perché ogni singola parte del mio corpo è rivolto all’orrore provato da un essere indifeso che non ha mai chiesto nulla. Perché no, i figli non chiedono di essere messi al mondo, ma una volta nati, hanno tutto il diritto di essere amati, nutriti, cresciuti e protetti. E non è nemmeno vero che la signora Pifferi vivesse nel degrado o non avesse una cerchia familiare a cui affidarsi o chiedere aiuto, la realtà è che questa donna per paura di essere giudicata, o semplicemente per non essere ritenuta una buona madre, ha preferito giocare alla roulette russa con la vita di sua figlia, di fatto perdendola, solo che a rimetterci per sempre è stata la piccola Diana. Le auguro di passare il resto dei suoi giorni rendendosi conto che quello che ha compiuto non è una banale dimenticanza, non è una scommessa con il banco, che poi si sa il banco vince sempre. Quello che ha fatto ha un nome ben preciso. Si chiama omicidio.