Aumentano le diagnosi di tumore alla mammella nelle giovani under-50. Questo dicono le cifre. Ma non bisogna guardare solo il bicchiere mezzo vuoto, legato alla tendenza alla crescita dei casi. Perché in Italia, tra il 2006 e il 2021, la mortalità in questa popolazione (parlando ovviamente di tumore al seno) è calata complessivamente del 16%.
Questa particolare situazione epidemiologica rende ancor più importante favorire le possibilità di fertilità delle donne che si sottopongono a trattamenti antitumorali (sempre più efficaci) in età riproduttiva. La sfida della scienza è poter favorire questa opportunità e si sta sempre migliorando, come emerso in occasione del convegno “Back From San Antonio”, tenutosi a Genova e dedicato alle principali novità dal “San Antonio Breast Cancer Symposium”, la principale assise scientifica sulla tematica mondiale.
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Attenzione alle donne giovani
“Ogni anno nel nostro Paese ancora più di 15mila donne perdono la vita a causa del tumore mammario – sottolinea Lucia Del Mastro, Professore Ordinario e Direttore della Clinica di Oncologia Medica dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino, Università di Genova -. Tuttavia il calo dei decessi, tra le pazienti più giovani, è senza dubbio un dato incoraggiante e dovuto soprattutto ad un netto miglioramento delle possibilità terapeutiche. Quando colpisce una donna giovane, al di sotto dei 40 anni, il tumore è spesso biologicamente più aggressivo. Inoltre il rischio che si tratti di una neoplasia ereditaria, legata alla presenza di mutazioni patogenetiche BRCA, è più elevato rispetto ai casi diagnosticati in età più avanzata”.
Il percorso di cura oltre a garantire le ottime probabilità di guarigione attualmente raggiunte deve prevedere che le donne giovani possano avere, una volta superata la malattia, le stesse prospettive ed aspettative delle donne che non si sono ammalate. Tra queste prospettive riveste particolare importanza l’eventuale desiderio di gravidanza futura.
Trattamenti su misura
Da anni si stanno studiando gli effetti collaterali legati alle terapie antitumorali e che possono portare a disfunzione ovarica, menopausa precoce ed infertilità.
“Grazie a trattamenti adeguati e personalizzati, messi a punto anche attraverso gli studi condotti dal nostro gruppo di ricerca del San Martino-Università di Genova, è oggi possibile diventare madre anche dopo il cancro – fa sapere l’esperta”. Non per nulla, al Policlinico San Martino, diversi anni fa, è stata creata la prima unità italiana di oncofertilità, apripista in Italia, per consentire alle giovani donne destinate alla chemioterapia per tumore di avere possibilità di gravidanza. Il tutto, in sicurezza. A dirlo è una ricerca di qualche tempo fa su 39 diversi studi, che ha preso in esame quasi 115.000 pazienti di cui 7500 ha avuto un figlio.
“Non vi è un aumento significativo del rischio di malformazioni congenite per il neonato né della maggior parte delle possibili complicazioni legate alla gestazione e al parto – spiega Lucia Del Mastro. E non è stato riscontrato nessun peggioramento della prognosi oncologica per le pazienti, in termini di ripresa della malattia. Il riscontro di un aumentato rischio di nascite sottopeso (+50%), di un ritardo di crescita intrauterina (+16%), di parto pre-termine (+45%) e con un cesareo (+14%), rispetto alle gravidanze nella popolazione generale, sottolinea l’importanza di seguire le gestanti con pregressa esposizione ai trattamenti oncologici con più attenzione”.
I trattamenti principali si basano sulla crioconservazione, cioè dal congelamento, degli ovociti o del tessuto ovarico e dall’utilizzo di farmaci per proteggere e mettere a riposo le ovaie durante la chemioterapia. Possono essere applicate alla stessa paziente e hanno un tasso di successo relativamente elevato.
Le novità nelle cure
Al convegno di Genova sono illustrati i principali risultati di alcuni studi che i ricercatori italiani hanno presentato nelle scorse settimane in sessione orale al San Antonio Breast Cancer Symposium. Al congresso americano Matteo Lambertini (Professore Associato di Oncologia Medica presso l’Università di Genova-IRCCS Ospedale Policlinico San Martino) ha mostrato una nuova ricerca sul ruolo della chirurgia preventiva per la riduzione del rischio di recidiva tra le portatrici di mutazioni BRCA.
Sono stati analizzati i dati raccolti tra il 2000 e il 2020 di 5.290 pazienti under 40 con tumore del seno trattate in 109 istituti di tutto il mondo. Quelle che hanno subito una mastectomia bilaterale avevano un rischio di morte inferiore del 35% e una riduzione del 42% di recidiva del cancro o di un secondo tumore maligno.
“Lo studio evidenzia nuovamente l’importanza della chirurgia di riduzione del rischio – segnala Lambertini -. E’ una scelta difficile, spesso dolorosa per una donna ma che può essere salvavita in determinate occasioni. I benefici della chirurgia sono stati osservati sia nelle donne BRCA1 sia in quelle BRCA2 mutate”.
Valentina Guarneri, Professore Ordinario di Oncologia Medica presso l’Università di Padova e Direttore dell’UOC di Oncologia 2 dell’IOV IRCCS di Padova, ha invece presentato una ricerca sul carcinoma mammario triplo negativo. È stato valutato l’immunoterapico avelumab adiuvante per pazienti ad alto rischio di recidiva.
“È un tipo di cancro al seno molto invasivo perché tende a crescere e a diffondersi più velocemente – aggiunge Guarneri -. Al momento vi sono poche opzioni di trattamento disponibili e tra queste vi è l’immunoterapia attualmente indicata come trattamento neoadiuvante. Il nostro studio ha dimostrato che l’anticorpo anti-PD-L1 avelumab, somministrato dopo il trattamento chemioterapico standard, migliora significativamente la sopravvivenza globale. Rispetto ad altre neoplasie, l’immunoterapia è arrivata relativamente tardi nella pratica clinica del carcinoma mammario. Sta però producendo evidenze scientifiche rilevanti in sottogruppo di malattia in cui le prognosi sono di solito più infauste”.
Infine le pazienti over 70 a basso rischio con tumore mammario in stadio iniziale sono state al centro dello studio EUROPA presentato da Icro Meattini (Responsabile Breast Unit dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi di Firenze). “Abbiamo confrontato gli effetti della radioterapia e della terapia endocrina come trattamenti monomodali dopo un primo intervento chirurgico – sottolinea Meattini. Abbiamo per reclutato 731 donne in cura presso 17 centri italiani, più uno sloveno. Il trattamento ormonale è risultato associato ad una maggiore riduzione della qualità di vita rispetto a 24 mesi di sola radioterapia. Sono risultati provvisori e che suggeriscono come quest’ultima sia preferibile come terapia per pazienti anziane e quindi più suscettibili agli effetti collaterali delle cure anti-cancro”.