Tumore dell’ovaio, le cure che ci sono e le speranze dalla ricerca

In occasione della Giornata Mondiale sul tumore ovarico, il punto sulla ricerca e sulle cure che utilizzano i PARP-inibitori

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Federico Mereta

Giornalista Scientifico

Laureato in medicina e Chirurgia ha da subito abbracciato la sfida della divulgazione scientifica: raccontare la scienza e la salute è la sua passione. Ha collaborato e ancora scrive per diverse testate, on e offline.

L’8 maggio si celebra la Giornata Mondiale sul tumore ovarico. Nicoletta Colombo, Professore Associato Università Milano Bicocca e Direttore del Programma di Ginecologia dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO), ha recentemente fatto il punto sulla situazione in occasione di un evento organizzato da ACTO (Alleanza contro il Tumore Ovarico) Italia. Le buone notizie non mancano sul fronte della ricerca, anche e soprattutto grazie alle prospettive aperte dall’utilizzo in prima linea dei cosiddetti PARP-inibitori.

Secondo l’esperta “nella cura del tumore ovarico i PARP-inibitori utilizzati in prima linea hanno dato risultati inaspettati sia aumentando la sopravvivenza libera da progressione che quella globale, così inaspettati che in alcuni casi io parlerei addirittura di potenziale guarigione da questo tumore”.

Il tumore ovarico, colpisce in Italia 51.136 donne con 5.370 nuove diagnosi all’anno (Dati Globocan e Airtum 2022), ed è la neoplasia ginecologica che, negli ultimi anni, è stata al centro di una grande rivoluzione diagnostica e terapeutica. In occasione della giornata le ACTO regionali di Piemonte, Lombardia, Triveneto, Toscana, Campania, Puglia e Sicilia hanno previsto iniziative specifiche per informare e sensibilizzare sul tumore ovarico, sull’importanza della diagnosi precoce e sulle cure disponibili e future.

Come funzionano i PARP-inibitori

Si tratta di farmaci bersaglio che approfittano del difetto  di ricombinazione omologa (Homologous Recombination Deficiency, HRD) associato alla mutazione di BRCA (ma non solo), per bloccare un ulteriore meccanismo del riparo del DNA e causare la morte cellulare. Si calcola che il 50% delle donne colpite da carcinoma ovarico sieroso di alto grado sia positiva all’HRD, di cui fa parte anche la mutazione BRCA, presente nel 25% delle pazienti.

I PARP-inibitori, utilizzati inizialmente nelle recidive, hanno mostrato subito una buona efficacia nel ritardare le recidive stesse. Ma è solo negli ultimi 5 anni, dal 2018, quando si è iniziato ad utilizzarli in prima linea, come terapia di mantenimento dopo la chemioterapia, che i risultati sono diventati particolarmente sorprendenti soprattutto nelle donne con mutazione del gene BRCA e in quelle il cui tumore è positivo al test HRD.

I risultati degli ultimi mesi hanno confermato un dato molto importante: non solo aumenta la sopravvivenza libera da malattia ma anche la sopravvivenza globale. Questo significa che è ora possibile curare e potenzialmente guarire più donne. Lo ha dimostrato lo studio SOLO1 su pazienti con mutazione BRCA: a 7 anni dalla diagnosi, sopravvive il 67% di pazienti trattate con PARP inibitori rispetto al 46% che non li ha ricevuti e il 45% delle pazienti non ha avuto recidive rispetto al 20% che non li ha ricevuti. Dati incoraggianti emergono  anche per le pazienti HRD che ricevono il PARP inibitore in combinazione con l’antiangiogenico bevacizumab: a 5 anni dalla diagnosi è vivo il 65% delle pazienti rispetto al 48% delle donne che non hanno ricevuto il PARP inibitore. Positivi infine sono anche i risultati nelle donne negative al BRCA e all’HRD seppure in misura minore. “E’ giusto quindi parlare di uno “tsunami PARP positivo” – sostiene Colombo – “per il miglioramento che questi farmaci hanno portato nella prognosi delle pazienti”.

Come riconoscere chi può avere vantaggio da queste cure

Ribadendo la necessità di eseguire i test BRCA e HRD alla diagnosi, Colombo chiarisce che in Italia il test non è ancora rimborsato dal SSN e viene realizzato utilizzando una tecnologia statunitense, con difficoltà di tempi di risposta e costi. Per ovviare a ciò, il mondo accademico nei suoi laboratori, in Italia e in Europa, sta sviluppando un test HRD confrontabile con quello disponibile negli Stati Uniti e validato in clinica e in laboratorio tramite campioni da studi precedenti. Oggi alcuni centri italiani possono eseguire i test nei loro laboratori anche grazie al sostegno dell’industria farmaceutica. In questo modo, questi centri possono avere rapidamente i risultati dei test e impostare la giusta terapia di prima linea oltre a eseguire i test per altri centri.

Cosa fare se il tumore ricompare

In caso di recidiva si sta puntando per il futuro sui farmaci anticorpo-coniugati. Si tratta di chemioterapici legati a un anticorpo. L’anticorpo riconosce sul tumore un particolare recettore e porta il farmaco direttamente nel tumore stesso che poi lo internalizza, con un effetto “cavallo di Troia”. Quindi, invece di immettere il chemioterapico nel circolo sanguigno e sperare che colpisca il tumore, il farmaco viene veicolato in modo mirato, in alta concentrazione e con efficacia maggiore. Questo meccanismo viene usato nel tumore dell’ovaio con un farmaco già approvato negli USA dalla FDA, chiamato mirvetuximab soravtansine. Ma la strada è aperta per altre innovazioni.