È un sogno. Ma potrebbe diventare realtà. Sostituire le cellule del cuore distrutte o comunque non più in grado di contrarsi normalmente, con un’area del muscolo cardiaco che non funziona a dovere, non è più soltanto un’utopia. E questo approccio in futuro potrebbe diventare un’arma per controllare lo scompenso cardiaco, fenomeno sempre più frequente sia per l’invecchiamento della popolazione sia come effetto collaterale delle migliorate terapie per l’infarto e la cardiopatia ischemica: si sopravvive di più, ma si paga lo scotto dell’insufficienza cardiaca. Il punto sulle ricerche in questo ambito è stato fatto al Congresso della Società Italiana di Medicina Interna (SIMI) recentemente tenutosi a Roma.
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Perché sono difficili le terapie cellulari per le forme più gravi
“Lo scompenso cardiaco, derivante dalla disfunzione e/o perdita dei cardiomiociti, e in particolare secondario alla cardiopatia ischemica – ricorda Daniele Torella, ordinario di Malattie dell’Apparato Cardiovascolare, Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica Università ‘Magna Graecia’ di Catanzaro – è il killer numero uno al mondo. Il campo della rigenerazione miocardica, con il suo obiettivo primario di “rimuscolarizzazione” cardiaca, e la sua difficile traslazione dal laboratorio al letto del paziente, è stato nel corso degli anni contraddistinto da alti e bassi, da passi avanti e indietro, da controversie e addirittura di scandali scientifici”.
Fino a questo punto si parla di prospettive e di possibili problemi, visto che allo stato attuale, le terapie cellulari cardiache, in particolare quelle arrivate alla fase della sperimentazione clinica (cellule mononucleate del midollo, progenitori endoteliali, cellule staminali mesenchimali e progenitori cardiaci adulti) sono da considerarsi qualcosa che va ancora studiato e compreso bene.
“In particolare, si ignora – prosegue il professor Torella – quale sia il vero agente “rigenerante” utilizzato dalle cellule (è insito nelle cellule stesse o si tratta di una sostanza prodotta da loro?); inoltre, non sono ancora chiari e non c’è consenso univoco sugli obiettivi della terapia (stimolare la rigenerazione dei cardiomiociti o migliorare la funzione di quelli sopravvissuti?). E non c’è neppure un consenso univoco rispetto alla ‘dose’ migliore di cellule da somministrare, né sul momento o sulla via di somministrazione ottimali da utilizzare per la terapia cellulare.
È dunque intuitivo che fino a quando la maggior parte di queste domande non troverà risposta, i test pre-clinici e clinici di riparazione/rigenerazione del cuore non potranno fornire risposte convincenti e conclusive sul loro potenziale clinico”. Indispensabile per fornire le risposte necessarie è la ricerca di base, che continua a fornire nuovi interessanti spunti, purtroppo quasi mai seguiti da solidi esperimenti scientifici riproducibili al punto da giustificare l’effettuazione di studi sull’uomo.
Le cure disponibili oggi
Per quanto riguarda il presente, invece, al di là del trapianto di cuore, soluzione per pochi fortunati, i milioni di pazienti che necessitano di una terapia efficace continuano ad essere trattati con farmaci “palliativi” o con dispositivi elettromedicali (terapie di risincronizzazione cardiaca o pacemaker anti-scompenso) che hanno come unico obiettivo quello di rallentare la progressione della malattia verso l’insufficienza cardiaca terminale.
“La ricerca cardiovascolare – conclude Torella – dovrebbe dunque avere l’ambizione di uscire dall’attuale continuo esercizio sul tapis roulant della biologia rigenerativa cardiaca, per perseguire l’obiettivo realistico e tempestivo di risolvere una questione basilare, ovvero se il miocardio abbia o meno un potenziale rigenerativo intrinseco e facendo avanzare la comprensione della sua biologia, per prevenirne il progressivo deterioramento tipico dello scompenso cardiaco post-ischemico”.