Dislessia nei nativi digitali: come riconoscere i segnali e cosa fare

Come riconoscere i segnali di dislessia nei nativi digitali e come cambia il loro modo di elaborare le informazioni

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Federico Mereta

Giornalista Scientifico

Laureato in medicina e Chirurgia ha da subito abbracciato la sfida della divulgazione scientifica: raccontare la scienza e la salute è la sua passione. Ha collaborato e ancora scrive per diverse testate, on e offline.

Per i bimbi che si abituano fin da piccoli all’uso dello smartphone il profilo cognitivo tende ad assomigliare a quello dei dislessici. E quindi, per i piccoli nativi digitali, si possono prevedere metodi più moderni d’insegnamento scolastico. Nell’era digitale, infatti, le modalità di elaborazione delle informazioni è olistica e spaziale-visiva, proprio come il pensiero di tipo dislessico.

Anche per questo la ricerca sul profilo cognitivo dei nativi digitali apre nuove strade nel campo dell’apprendimento e nella revisione dei modelli di insegnamento. A ricordarlo sono gli esperti presenti al convegno “Come prevenire le difficoltà di apprendimento degli alunni con Dsa e non, valorizzando attitudini e talenti”, organizzato dall’associazione Il Laribinto Progetti Dislessia Onlus.

Cosa cambia nei nativi digitali

I nativi digitali crescono con un sistema nervoso diverso e una diversa visione della vita in confronto alle generazioni precedenti – spiega Rossella Grenci, ricercatrice nel campo dei DSA, logopedista dell’Azienda Ospedaliera San Carlo di Potenza e autrice di numerose pubblicazioni dedicate alla dislessia e ai disturbi evolutivi del linguaggio. Gli strumenti tecnologici sono stati quelli che hanno reso possibile il trasferimento di informazioni basate su stimoli spaziali-visivi, con conseguente rapido trasferimento di un’enorme quantità di informazioni, avvicinando il modo di apprendere dei nativi digitali a quello dei dislessici”.

“A lungo etichettata come un disturbo, la dislessia (che sta all’interno dei DSA, disturbi specifici dell’apprendimento) può essere compresa a fondo solo se valutata per quello che è: una neurodiversità – sottolinea Maria Dimita, presidente dell’Associazione Il Laribinto Progetti Dislessia che si occupa di iniziative di supporto alle famiglie, ai ragazzi e ai docenti. Secondo questa visione più attuale e positiva si aprono nuove vie per la realizzazione scolastica e professionale, sia di chi ha un DSA, sia dei nativi digitali in generale. Parliamo di un fenomeno rilevante, che colpisce in Italia oltre il 5% dei bambini tra scuola primaria e secondaria, cioè circa 330 mila alunni che commettono errori nella lettura, impiegano molto tempo per leggere e spesso non comprendono bene il significato di ciò che stanno leggendo. Eppure hanno un’intelligenza pienamente nella norma”.

Come apprendono i nativi digitali

I bambini dell’ultima generazione, esposti fin da subito all’uso della tecnologia digitale, sviluppano strutture d’apprendimento diverse rispetto a quelle della generazione immediatamente precedente, quella dei cosiddetti ‘immigrati digitali’. Dunque elaborano in modo differente le informazioni. Questo nuovo profilo cognitivo è caratterizzato da una maggiore creatività e da una maggiore velocità nei movimenti.

“Nei nativi digitali è l’emisfero destro del cervello a essere potenziato per via della capacità specifica di questa area di elaborare una grande quantità di informazioni visive – sottolinea Grenci. I nativi digitali vedono il sapere come un processo dinamico, apprendono per esperienza e per approssimazioni successive, imparano dagli errori e attraverso l’esplorazione, e condividono con i pari. In altre parole, hanno un approccio open source e cooperativo alle fonti del sapere. Sono dunque più veloci nel prendere decisioni, ma deboli nel pensiero metodico e accurato”.

Cosa fare a scuola

A fronte dei modelli di insegnamento, quindi, “è necessario dunque scegliere  pratiche didattiche coerenti con i modelli della società digitale, sia per parlare agli studenti nel loro linguaggio, sia per sviluppare le competenze che la società digitale richiede e che, ovviamente, gli studenti non hanno, anche se hanno già acquisito alcuni atteggiamenti/comportamenti tipici del contesto digitale in cui sono immersi dalla nascita – sottolinea Dimita”. Il cambiamento deve riguardare, non solo i contenuti, ma anche i modelli di insegnamento. Ad esempio, tra le proposte, c’è quella di Giocoimparo, collana di giochi educativo-didattici.

“È un laboratorio ludico-didattico, secondo il modello del gioco guidato, per la costruzione e il potenziamento dei prerequisiti cognitivi e strumentali degli apprendimenti della letto-scrittura –  spiega Angela Zerbino. E’ stato promosso dall’Associazione Il Laribinto e sperimentato con successo, come laboratorio pilota, in una scuola d’infanzia di Milano. Partendo dai fondamenti teorici dell’acquisizione delle competenze di metafonologia e linguistica, come prevenzione ai DSA, vengono fornite utili indicazioni sulla metodologia di intervento per la progettazione, osservazione e documentazione di Laboratori Linguistici, indirizzati a tutti i bambini all’ultimo anno di scuola d’infanzia e biennio della scuola primaria”.

Cos’è la dislessia

Disturbo della capacità di leggere in persone che non hanno difficoltà visive o uditive o altre patologie neurologiche, e dotate di un quoziente d’intelligenza normale. Questa è la definizione che l’Organizzazione Mondiale della Sanità dà della dislessia. Il bambino dislessico può presentare problemi diversi, che vanno da una lettura esitante e faticosa in cui si perdono o si aggiungono sillabe e parole fino a difficoltà nella scrittura, con persistenti errori di ortografia. O magari tendere a perdere il segno, a rileggere le stesse righe, a fare errori di ortografia, a non rispettare la punteggiatura e a confondere destra e sinistra. L’importante è arrivare ad una diagnosi precisa.

La situazione va distinta dai disturbi dell’apprendimento. Nella maggior parte dei casi le difficoltà scolastiche derivano o da modalità di insegnamento cui i bambini non si adeguano, o da richieste esagerate della famiglia o dei docenti, sia dalla rapidità di apprendimento dei diversi alfabeti (maiuscolo, minuscolo, corsivo etc.) che i bambini si trovano a capire ed impiegare in pochi mesi.

Quali sono i segnali d’allarme della dislessia

In generale, il bambino dislessico può presentare problemi diversi, che vanno da una lettura esitante e faticosa in cui si perdono o si aggiungono sillabe e parole fino a difficoltà nella scrittura, con persistenti errori di ortografia. A volte  il bambino tende a perdere il segno, a rileggere le stesse righe, a fare errori di ortografia, a non rispettare la punteggiatura e a confondere destra e sinistra. “Se a questi segnali d’allarme si aggiunge una forte difficoltà di concentrazione, ecco che la mamma e la maestra temono di essere davanti ad una pesante difficoltà di apprendimento. Ma non è così. Le capacità intellettive sono normalissime, e frequentemente i bambini dislessici hanno un quoziente intellettivo superiore alla norma. D’altro canto, pensare che Leonardo da Vinci o Walt Disney, dislessici da bambini, presentassero deficit intellettuali è davvero fuori luogo.

Come si può affrontare

Per chi ha un bambino che proprio fa confusione leggendo e scrivendo e non riesce a distinguere bene alcune lettere (in particolare b con d, p con b e d con t, che si assomigliano o sono speculari) quindi, il primo passo è quello di arrivare ad una diagnosi precisa della dislessia. In questo senso occorrono test psicologici che indaghino lo stato emotivo del bimbo, uniti a valutazioni dell’area linguistica, del rapporto visuo-spaziale e spazio-temporale. E non bisogna sottovalutare anche i normali test psicomotori.

Innanzitutto bisogna semplificare i processi di apprendimento, facendo in modo che il bimbo utilizzi il solo alfabeto in cui rende meglio. Poi occorre adattare la metodica di insegnamento al bambino, e non viceversa. Infine già dalla scuola materna occorre puntare di più sulle esperienze intermedie che aiutino a formare conoscenze di base e non iniziare già ad anticipare scrittura e lettura. In questo modo si evitano salti nel vuoto che possono apparire estremamente complessi da superare.

Italiano meno a rischio dislessia?

Per gli italiani il rischio di dislessia è molto più basso rispetto ai bambini francofoni e soprattutto anglofoni. Lo ha scoperto diversi anni fa una ricerca apparsa su Science, che riconosce proprio nelle caratteristiche della lingua italiana un formidabile elemento preventivo nei confronti della dislessia. Infatti la nostra lingua ha solamente 28 unità minime del linguaggio parlato, i cosiddetti fonemi, potenzialmente trascrivibili da 33 grafemi, cioè da brevissime sequenze di lettere che consentono di tradurre in scritto i fonemi. Per questo, probabilmente, il rischio di errori di ortografia è minore rispetto alle altre lingue.

Per i bambini che vivono in Inghilterra ad esempio, ci sono oltre 110 grafemi per trasformare in scrittura le 62 unità di linguaggio parlato di questo linguaggio. Il che significa che un unico fonema può essere trascritto in diversi grafemi, e questo comporta una gravissima difficoltà, specie per chi soffre di dislessia, a scrivere correttamente. Non solo. Per chi ha l’inglese come lingua madre lo stesso grafema, anche se scritto correttamente, può essere letto in forme diverse, perché la pronuncia si modifica. Potrebbe essere anche questo il motivo per cui gli italiani difficilmente imparano senza difficoltà l’inglese. D’altro canto, va anche detto che la relativa “semplicità” della nostra lingua può rivelarsi un’arma a doppio taglio. Infatti l’italiano quasi sempre si scrive come si sente, e questo può anche “nascondere” alcune forme di dislessia, che quindi vengono scoperte ed affrontate in ritardo.

Fonti bibliografiche

Il Laribinto Progetti Dislessia Onlus