Quasi quattro persone su cinque, tra quante fanno i conti con l’artrite reumatoide, richiede una personalizzazione dei percorsi di cura. E segnalano il bisogno di affrontare non solo la presa in carico clinica della malattia reumatologica, ma anche la vita di relazione e le necessità sociali.
A dirlo è una ricerca elaborata da un gruppo di lavoro multidisciplinare composto da clinici, Associazioni Pazienti, farmacologi e farmaco-economisti, ha coinvolto 67 professionisti sanitari e 70 pazienti con artrite reumatoide.
Lo studio è alla base di un documento sull’approccio alla patologia realizzato da ALTEMS Advisory-Facoltà di Economia Università Cattolica del Sacro Cuore con il patrocinio di ANMAR – Associazione Nazionale Malati Reumatici ODV e di APMARR – Associazione Nazionale Persone con Malattie Reumatologiche e Rare. Dal documento emergono i punti chiave delle richieste delle persone che affrontano la patologia.
Indice
Artrite reumatoide, perché la donna è a rischio
Tecnicamente stiamo parlando di una patologia autoimmune. Cosa significa? In pratica il sistema difensivo dell’organismo si scatena, sbagliando, contro strutture dell’organismo stesso. Normalmente infatti il sistema immunitario protegge il corpo dalle infezioni causate da batteri e virus. Tuttavia, nelle persone affette da artrite reumatoide, produce per errore anticorpi che attaccano il rivestimento delle articolazioni (la membrana sinoviale), provocando infiammazione e dolore.
L’infiammazione genera sostanze chimiche (citochine) che causano l’ispessimento e l’aumento di volume della membrana sinoviale, danneggiando le ossa, le cartilagini, i tendini e i legamenti circostanti. Se non trattate, le citochine possono portare alla deformazione delle articolazioni e, alla fine, alla loro completa distruzione.
La patologia colpisce circa l’1% della popolazione mondiale, con una prevalenza maggiore nelle donne rispetto agli uomini. Può insorgere a qualsiasi età, ma è più comune tra i 35 e 50 anni. Non si hanno certezze sulle cause del disordine immunitario. Ma si pensa che sia legato anche ad una combinazione di fattori genetici e ambientali. Alcuni geni sono associati a un rischio aumentato, così come il fumo o infezioni specifiche possono contribuire all’insorgenza della patologia.
A che punto sono le cure
Sul fronte delle cure, ad oggi non c’è modo di risolvere definitivamente l’artrite reumatoide. Il trattamento mira soprattutto a ridurre l’infiammazione per prevenire l’erosione, la progressione della patologia e la perdita di funzionalità articolare.
Le opzioni terapeutiche di prima scelta includono farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS), corticosteroidi e farmaci antireumatici “convenzionali” (DMARDs) come metotressato, sulfasalazina e leflunomide.
Nei pazienti che non rispondono adeguatamente a questi trattamenti iniziali, vengono utilizzati i cosiddetti farmaci biologici, così chiamati perché realizzati con tecnologie specifiche di biologia molecolare. Questi farmaci sono capaci di bloccare in modo selettivo alcune molecole (citochine) coinvolte nella malattia, come il TNF e l’IL-6, e vengono somministrati per via sottocutanea o endovenosa. Più di recente, sono stati introdotti farmaci ancora più innovativi, i cosiddetti inibitori delle JAK, che sono in grado di bloccare più citochine contemporaneamente e vengono somministrati per via orale.
Perché occorre seguire bene le cure
L’artrite reumatoide è una malattia cronica. E quindi va trattata nel tempo. È fondamentale che il/la paziente sappia che i trattamenti possono durare tutta la vita e si impegni a seguire con attenzione le cure. “Il rischio di un’aderenza inadeguata alle terapie prescritte è molto alto – commenta Fabrizio Conti, Professore Ordinario di Reumatologia, Dipartimento di scienze cliniche, internistiche, anestesiologiche e cardiovascolari, Sapienza-Università di Roma. Negli ultimi anni si è realizzata una vera e propria rivoluzione con l’arrivo dei nuovi farmaci, prima biologici e ora anche le small molecules.
Per quanto riguarda i dati sull’aderenza ai farmaci biologici, in particolare, i numeri dimostrano un’aderenza incompleta nel 30% dei casi, che non vuol dire necessariamente una sospensione radicale. Rispetto al tema dell’aderenza terapeutica abbiamo molte metodologie che hanno provato a misurarla, sebbene non esista un test gold standard. La complessa valutazione dell’aderenza alla terapia può essere effettuata mediante metodi soggettivi (dato fornito dal paziente e rilevato attraverso questionari, o interviste effettuate durante le visite) oppure oggettivi (monitoraggio dei livelli ematici del farmaco, analisi del database delle prescrizioni). Nessuno di questi metodi è esente da errori. È ben noto che i pazienti meno aderenti rispondono meno, ed è unanimemente dimostrato che l’aderenza migliora se si coinvolge il paziente nel progetto terapeutico”.
Perché occorre un approccio interdisciplinare
Il/la paziente deve essere al centro del trattamento. La complessità della malattia impone quindi un trattamento interdisciplinare, anche perché bisogna considerare non solo le manifestazioni articolari ma anche quelle extra-articolari, incluse, pertanto, le altre patologie, ovvero le comorbidità.
“Le comorbidità sono patologie sopraggiunte che non hanno un legame diretto con la malattia principale; oppure possono essere presenti già prima dell’insorgenza dell’artrite reumatoide – continua l’esperto. Ad esempio, trattare adeguatamente l’artrite reumatoide riduce il rischio di eventi cardiovascolari. Sotto questo aspetto è fondamentale ridurre al minimo la terapia con glucocorticoidi per evitare ulteriori complicanze.
Anche l’obesità influisce negativamente sulla risposta al trattamento e sulla qualità della vita del paziente. Dimagrire migliora il decorso della malattia e la qualità della vita. Rispetto alla realizzazione concreta di un approccio multidisciplinare, non occorre che il paziente debba migrare tra differenti specialisti, bensì è opportuno che risulti gestito in prima persona dal reumatologo, che valuta il rischio cardiovascolare e la presenza di eventuali complicanze; laddove necessario, il reumatologo chiede un consulto ad altri specialisti, come il cardiologo o lo pneumologo, per la gestione condivisa delle complicanze”.