Perché mi manca sempre qualcosa? Psicologia della felicità

Hai tutto, eppure ti senti insoddisfatta. Scopri perché succede e come coltivare una felicità più stabile

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Donatella Ruggeri

Psicologa

Psicologa, fondatrice di “Settimana del Cervello”. È una nomade digitale: lavora da remoto e lo fa viaggiando.

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Ti è mai capitato di sentirti insoddisfatta anche se, a conti fatti, non ti manca nulla? Hai raggiunto traguardi importanti, hai persone vicine, magari stai vivendo un momento sereno… eppure avverti un vuoto difficile da spiegare. Come se ci fosse sempre un pezzo mancante, qualcosa in più da inseguire.

Non sei la sola a provare questa sensazione, e no, non significa che non sai apprezzare ciò che hai. La risposta potrebbe trovarsi in un meccanismo psicologico ben noto: l’adattamento edonico. Questo meccanismo infatti ci porta, anche dopo esperienze molto positive, a tornare a uno stato emotivo “neutro”.

In questo articolo esploriamo cosa succede dentro di noi quando tutto sembra andare bene ma non basta e come possiamo agire per coltivare una forma di benessere più autentica e duratura.

Perché ci abituiamo alla felicità

Quando nella nostra vita succede qualcosa di bello come una promozione, una nuova relazione o un cambiamento desiderato, è naturale sentirsi entusiaste e piene di energia. Ma col passare del tempo, le emozioni intense tendono a svanire. Non perché ci sia necessariamente qualcosa che non va, ma perché… il nostro cervello si adatta.

Questo meccanismo in psicologia si chiama adattamento edonico (noto anche come tapis roulant della felicità).

L’adattamento edonico è un processo psicologico che ci riporta a un livello base di benessere emotivo, attenuando gradualmente sia le emozioni negative (bene!) che quelle positive (nostro malgrado).

Da un lato, quindi, ci protegge dalla sofferenza prolungata aiutandoci a ritrovare un equilibrio anche dopo eventi difficili. Dall’altro, però, ci fa abituare anche alle cose belle, rendendo transitoria la soddisfazione che deriva da successi, gratificazioni o miglioramenti nella nostra vita.

Questo spiega perché i beni materiali, i traguardi raggiunti o i cambiamenti esterni, da soli, non bastano a garantire una felicità duratura.

La gratificazione dell’inizio tende a ridursi nel tempo, lasciando spazio a un nuovo desiderio, a un altro obiettivo da inseguire. È un ciclo che si ripete e che, se non ne siamo consapevoli, può farci sentire perennemente in rincorsa verso qualcosa che non arriva mai.

Le radici evolutive dell’insoddisfazione

L’adattamento edonico non è un difetto della nostra mente, bensì una caratteristica che viene dalla nostra evoluzione.

Anticamente, accontentarsi troppo presto poteva essere pericoloso. Se una persona smetteva di cercare cibo, acqua o riparo appena raggiunto un minimo livello di benessere, rischiava di non essere pronta ad affrontare carestie, predatori o cambiamenti climatici improvvisi. La capacità di adattarsi, esplorare nuovi territori, accumulare risorse e restare vigili era fondamentale per sopravvivere in un ambiente instabile e pieno di incertezze.

Per questo, il cervello umano si è evoluto con una tendenza naturale a volere sempre un po’ di più. Chi restava motivato a migliorare le proprie condizioni, a cercare alternative e a non fermarsi mai del tutto, aveva infatti più probabilità di sopravvivere, proteggere il proprio gruppo e trasmettere i propri geni alle generazioni future.

Quindi, l’insoddisfazione in passato è stata una strategia vincente per la sopravvivenza, non un limite, ma una spinta evolutiva che ha guidato il progresso dell’umanità.

Tuttavia oggi questa stessa dinamica può trasformarsi in una trappola. Dal momento che molti dei nostri bisogni primari (se non tutti) sono già soddisfatti, la spinta a volere sempre di più genera un senso continuo di insoddisfazione.

Riconoscere l’esistenza dell’adattamento edonico è molto utile per non subirlo passivamente. Solo riconoscendolo possiamo imparare a prenderci cura del nostro benessere in modo più consapevole, sviluppando una felicità meno dipendente dagli stimoli esterni e più radicata nel nostro modo di vivere, pensare e sentire.

Felicità, cultura ed età

La nostra idea di felicità non è determinata solo dalla biologia o dai meccanismi cerebrali come l’adattamento edonico: anche la cultura e il momento della vita in cui ci troviamo influenzano profondamente il modo in cui la cerchiamo e la valutiamo.

Nelle società occidentali, ad esempio, la felicità è spesso associata al successo personale, alla realizzazione individuale, all’autonomia. Siamo esposte fin da giovani a messaggi che ci spingono a dare il massimo, a raggiungere obiettivi tangibili, a migliorare costantemente noi stesse.

In altri contesti culturali, invece, il benessere viene definito in relazione agli altri: è più importante il legame con la comunità, l’armonia familiare, il contributo al bene collettivo.

Pensiamo al Giappone, dove la felicità è spesso legata al mantenimento dell’equilibrio sociale, rispetto agli Stati Uniti, dove prevale una visione più individualista e competitiva.

Questi modelli non solo variano da cultura a cultura, ma cambiano anche con l’età e con le fasi della vita. Le aspettative su cosa significhi “essere felici” cambiano, e anche di molto, nel tempo.

Da giovani, la ricerca della novità, del riconoscimento sociale o dell’avventura può essere dominante. Ma con il passare degli anni, tendiamo a dare più valore alla stabilità, alle relazioni autentiche, alla tranquillità e al senso di appartenenza.

Non cambiano solo i desideri, ma proprio il nostro modo di rapportarci al mondo. Una persona adulta, ad esempio, può trovare soddisfazione nel dedicarsi al volontariato, nel coltivare un hobby, o nel riscoprire la semplicità delle piccole cose quotidiane, aspetti che in un’altra fase della vita avrebbero forse suscitato noia o disinteresse.

Accogliere questa evoluzione è un grande segno di maturità emotiva: significa ascoltare i propri bisogni in divenire, adattare le aspettative al contesto e accettare che la felicità non è una formula unica valida per sempre, ma un equilibrio dinamico che cambia insieme a noi.

L’adattamento edonico nella vita di tutti i giorni

Nella quotidianità, l’adattamento edonico si manifesta in diversi modi. Ad esempio, l’adattamento edonico si palesa dopo un acquisto che inizialmente ci rendeva entusiaste (che perde il suo fascino dopo pochi giorni), oppure quando una promozione tanto attesa si trasforma in un pezzo del puzzle della nostra routine.

Le relazioni non ne sono esenti: le prime fasi di un amore o di un’amicizia sono spesso cariche di energia e curiosità, ma con il tempo, ciò che prima ci sorprendeva diventa familiare e l’attenzione può spostarsi altrove. Lo stesso vale per piccoli piaceri quotidiani: una serie che ci appassionava, un brano musicale che ascoltavamo in loop, un hobby scoperto da poco… Tutto, col tempo, rischia di scivolare nella normalità.

Questo meccanismo non si limita agli adulti. Nei bambini, ad esempio, si osserva quando l’euforia per un gioco nuovo dura appena qualche giorno, o quando la noia arriva subito dopo aver ottenuto ciò che volevano. Il loro cervello, ancora in formazione, è particolarmente sensibile agli stimoli e tende a cercarne continuamente di nuovi.

A livello sociale, l’adattamento edonico contribuisce a creare modelli culturali ed economici basati sul “sempre di più”: nuovi desideri, nuovi traguardi, nuove versioni di sé da inseguire.

Emozioni negative: nemiche o alleate?

Nel contesto dell’adattamento edonico, siamo spesso portate a inseguire stimoli positivi e a evitare qualsiasi emozione spiacevole. La nostra cultura tende a sovrastimare la felicità come stato costante, quasi fosse un obiettivo da mantenere a ogni costo, di conseguenza, emozioni come tristezza, noia, rabbia o frustrazione vengono viste come ostacoli da eliminare, sintomi di qualcosa che non va.

In realtà, queste emozioni non sono nemiche, ma segnali che ci aiutano a orientarci e a prenderci cura di noi. La noia, ad esempio, può emergere quando il nostro cervello si è già adattato agli stimoli di una situazione e ci invita a cercare qualcosa di più significativo o coinvolgente. È una spinta naturale al cambiamento, spesso legata proprio al meccanismo dell’adattamento edonico che rende ciò che prima ci entusiasmava ormai privo di stimoli.

Allo stesso modo, anche la tristezza può essere utile: ci permette di rallentare, elaborare le perdite, rivalutare le priorità e riconoscere ciò a cui teniamo davvero. Se poi guardiamo alle emozioni più “attive”, come la rabbia o la frustrazione, queste ci segnalano che un nostro bisogno non è stato ascoltato o che qualcosa va rinegoziato, sia nelle relazioni che nel lavoro o nelle scelte personali.

Accettare queste emozioni, senza cercare di zittirle o cancellarle, ci permette di rompere la dipendenza da gratificazioni continue. Paradossalmente, infatti, proprio quando smettiamo di combattere ciò che sentiamo e iniziamo ad ascoltarlo, creiamo lo spazio per una felicità più stabile, che è meno legata agli alti e bassi del momento.

Immagina una giornata di pioggia: se la rifiuti, passerai il tempo a lamentarti e a desiderare che finisca. Se invece la accetti per quello che è, puoi coglierne l’occasione per leggere, riflettere, riposare o anche semplicemente stare. Le emozioni funzionano allo stesso modo: non possiamo controllare il meteo interiore, ma possiamo scegliere come attraversarlo.

Il paradosso della scelta

Dopo aver considerato come l’adattamento edonico influenzi la nostra percezione del piacere e come le emozioni negative possano farci da guida, c’è un altro fattore da considerare che alimenta l’insoddisfazione cronica ed è l’eccesso di possibilità.

Diciamocelo, oggi possiamo scegliere quasi tutto: percorsi di carriera, stili di vita, partner, città in cui vivere, perfino l’identità da mostrare online. Ma se questa libertà a prima vista può sembrare il massimo della realizzazione personale, spesso nella realtà dei fatti si traduce in ansia da decisione, senso di smarrimento e insoddisfazione.

È ciò che lo psicologo Barry Schwartz ha definito il paradosso della scelta: più opzioni abbiamo, più aumenta la pressione di fare la scelta “giusta”, con il rischio di rimanere bloccate tra il desiderio di perfezione e la paura di pentirsi.

Anche quando facciamo una scelta, infatti, la mente tende a tornare sulle alternative scartate, alimentando il dubbio che ci siamo lasciate sfuggire qualcosa di migliore

Quindi, non solo ci abituiamo rapidamente a ciò che otteniamo, ma fatichiamo anche ad attribuirgli valore perché ci sembra sempre che là fuori ci sia un’opzione migliore. Così, l’abbondanza di stimoli e possibilità, invece di farci sentire libere, ci appesantisce e ci rende più vulnerabili alla frustrazione.

Un esempio probabilmente vicino all’esperienza di molte, è lo scegliere cosa guardare su una piattaforma di streaming. Dopo aver trascorso venti minuti a scorrere tra centinaia di titoli, magari guardi un film… e intanto ti chiedi se avresti potuto sceglierne uno più bello.

Il punto però non è la scelta in sé, ma il modo in cui la viviamo. La continua comparazione con ciò che avremmo potuto fare, avere, essere, ci toglie la possibilità di stare davvero nel presente.

Come coltivare la felicità

La felicità, l’abbiamo detto, non è un traguardo, né un dono, ma una pratica fatta di scelte e abitudini quotidiane.

Ecco alcune strategie efficaci per coltivarla, secondo la ricerca:

  • Preferisci le esperienze ai beni materiali: viaggi, corsi, momenti con le persone care creano ricordi duraturi e meno soggetti all’adattamento edonico rispetto agli oggetti materiali;
  • Scrivi le cose per cui sei grata: un semplice esercizio che, se fatto con costanza, può aumentare la soddisfazione in poche settimane;
  • Cura le relazioni autentiche: bastano pochi legami profondi per creare una rete di fiducia e benessere duraturo;
  • Fa’ attenzione all’automatismo: dedica anche solo 10 minuti al giorno di meditazione e consapevolezza per assaporare il presente e interrompere il “pilota automatico” della vita;
  • Datti degli obiettivi sfidanti ma realistici: sentirsi in movimento verso qualcosa dà un senso di scopo e migliora la motivazione, ma è importante che le mete siano raggiungibili;
  • Accetta che la felicità fluttua: non c’è nulla di sbagliato se l’entusiasmo cala, è normale e fa parte della vita. L’importante è non identificarsi con questi alti e bassi, ma imparare a navigarli con curiosità e gentilezza verso se stesse.