La cosa peggiore che può capitare a una bambina che da piccola si trasferisce con la famiglia in un’altra città, è quello di smarrire il senso di appartenenza. A me è successo, più e più volte, di non sentirmi a casa.
Però ricordo esattamente come tutto cambiava durante il periodo dell’Avvento. Come una bellissima fiaba di Natale tutto intorno a me si trasformava. Dicembre sembrava infinito, non come adesso che le giornate si susseguono velocemente senza darci il tempo di accorgerci di quello che ci succede intorno.
Le valigie sul letto segnavano la partenza imminente, quella verso casa di nonna. Nei giorni di festa ci riunivamo attorno al camino per riscaldarci, e mentre i grandi discutevano del menu e della spesa, noi piccoli fantasticavamo sui doni che Babbo Natale ci avrebbe portato.
Ogni tanto eravamo interrotti dall’arrivo degli zampognari. Ci affacciavamo dal balcone o dalla finestre ed entusiasti improvvisavamo un balletto sulle note di quelle canzoni natalizie. E poi di nuovo in casa a scrivere la letterina destinata a Babbo Natale.
La mattina del 24 dicembre, come da tradizione, nonna si alzava all’alba per iniziare i preparativi di quel cenone magico. Mia madre e le mie zie mettevano in scena la loro creatività per imbandire quella tavola grandissima che, crescendo, mi sembrava sempre un po’ più piccola. Io restavo ore a guardarle e mi improvvisavo direttrice dei lavori, e loro me lo lasciavano fare.
L’attesa non mi annoiava, anzi. Mi rendeva ancora più impaziente. Aspettando che arrivasse la sera per celebrare la Vigilia di Natale, mi andavo a sedere davanti a quel grande presepe, allestito con tantissime statuette della tradizione partenopea e lo ammiravo. Amavo i dettagli che lo caratterizzavano. C’era il fornaio e il pastore, gli artigiani, i venditori ortofrutticoli, il macellaio e il commesso della bottega. C’era anche un piccolo ruscello dal quale sgorgava acqua in continuazione.
Il crepuscolo era il mio orologio naturale, quello che mi ricordava che l’ora della cena era vicina, e quando il campanello suonava e gli ospiti iniziavano a invadere il grande salotto della casa di nonna incorniciato dallo scintillante albero di Natale, la festa aveva ufficialmente inizio.
Insieme a mia sorella e ai cugini più piccoli, come da tradizione, organizzavamo il nostro spettacolo di Natale con una platea di adulti che cercavano di mantenere alta la concentrazione mentre mettevamo in scena, con tanta creatività, la natività. Poi, a mezzanotte, arrivava il nostro momento preferito: scartare i regali portati da Babbo Natale.
A quei tempi non c’erano smartphone a disturbare con le notifiche le cene e i pranzi. Ma papà ogni tanto scattava qualche foto con quella vecchia Laica che ancora oggi conservo.
Ma come tutte le cose, anche quei Natali non erano destinati a restare così per sempre. Gli anni passavano e il salotto diventava sempre più vuoto fino a quel momento in cui quella tavola non è stata più imbandita. Quando questo è successo, devo confessarvi, che il mio senso di smarrimento è tornato e, anzi, si è amplificato.
Sono arrivata quasi a non sopportare più il Natale. A rifiutare gli inviti di mia madre per allestire quel grande albero solitario della nostra casa in un’altra città. Che senso aveva, tutto questo, senza nonna? Senza le recite, senza Babbo Natale e senza tutti gli altri?
Supportata dalla ribellione adolescenziale, mi sono trasformata in un piccolo Grinch. Ma per fortuna l’avversione al Natale non è durata poi così tanto e sono riuscita a recuperare quella meravigliosa magia che aveva caratterizzato la mia infanzia. Perché poi l’ho capito che i regali più belli il tempo non li può cancellare. E i miei risiedono tutt’oggi nelle tradizioni che ho fatto mie, quelle di nonna, quelle di mamma. E nei ricordi che custodisco, ora e per sempre, nel cuore.