Giulia Cecchettin e Filippo Turetta, due nomi che hanno fatto esplodere un dibattito nascosto sotto il tappetto, da decenni. Violenza di genere, stereotipi di genere, violenze sessuali, femminicidi. Non sono solo capi di imputazione, reati, ma soprattutto rappresentano una sottocultura che alimentiamo ogni giorno, con un linguaggio troppo poco consapevole, un quadro sociale ed una cronaca raccapricciante fatta di nomi e cognomi di bambine, ragazze, donne vittime di abusi e violenze fisiche, verbali, piscologiche. Tragedie quotidiane di cui, a volte, si fa fatica anche a vederle per quello che sono.
In questo lungo articolo abbiamo voluto esplorare il contesto nel quale vivono i giovanissimi e le giovanissime, quelli e quelle che vorremmo iniziare all’educazione sentimentale, al rispetto dei generi, ma le riflessioni che ne conseguono sono davvero amare, al pari dei fatti.
Giulia e Filippo sono degli specchi che chi hanno mostrato quello che ancora oggi siamo. Nonostante le parole, gli slogan, i provvedimenti, il codice rosso.
Grazie a Giulia si è alzato il tappeto e si è rispolverata quella necessità di cui ancora non comprendiamo l’enorme carattere emergenziale: un’educazione sentimentale, emotiva, valoriale, fatta di rispetto di sé e dell’altro, del consenso e del dissenso, della parità fra uomini e donne. Tutto quello che addirittura le favole della nostra infanzia, fino alle più misere rime dei trapper, vanno a scardinare senza che nessuno se ne accorga.
Indice
Disparità di genere e violenza: le leggi che le hanno garantite
Ora cercheremo di entrare nel merito di quello che sta accadendo, ma per parlare di educazione sentimentale, di rispetto per il genere femminile, vittima incontestabile numero uno, dobbiamo partire dal quadro culturale e normativo nel quale ci troviamo.
La nostra cultura è rappresentata anche dalle leggi che inquadrano e disciplinano il nostro vivere civile, e se alcune tardano ad arrivare, altre dovrebbero avere il potere di cambiare i (dis)valori imperanti, mettendo in crisi comportamenti e pensieri che molti uomini e molte donne hanno così tanto introiettato da non esserne consapevoli.
Ci vuole tempo, lo sappiamo, ed è comprensibile che una ratifica ad una legge non sia come un colpo di spugna. Purtroppo, però, quel tempo non passa senza danni. Quel tempo che dobbiamo attendere perché le cose cambino è fatto di nomi e di cognomi.
Al momento in cui si scrive, sono 103 le donne uccise dall’inizio dell’anno. Hanno dai 13 ai 90 anni. Provengono da contesti sociali e geografici disparati. Si chiamano Giulia, Martina, Oriana, Teresa, Alina, Giuseppina, Yana, Antonia. Troppi nomi e cognomi da ricordare, troppe storie, tutte terribilmente simili: vite interrotte da una mano che per secoli ha detenuto un potere incontestabile, anche garantito dalla legge. Lo chiamiamo ormai femminicidio, mentre prima non aveva un nome.
Fino agli anni ’70, il potere che l’uomo aveva sulla donna non solo era incontrastato ma soprattutto garantito dalla legge. La donna non poteva sottrarsi al matrimonio combinato o seguente un rapimento o una violenza sessuale, non aveva la stessa potestà genitoriale del marito, non poteva decidere dove andare a vivere, non poteva divorziare, non poteva gestire un proprio patrimonio, ovviamente non poteva abortire. Tante le date e le leggi che hanno cominciato a far scricchiolare il piedistallo dell’uomo, ecco qui alcuni dei passaggi principali.
Nel 1968 venne abrogato il reato di adulterio, che faceva fioccare vittime soprattutto al femminile.
Nel 1970 venne approvata la legge sul divorzio che, sebbene fosse consentito così ad entrambi i coniugi, salvava soprattutto le donne che subivano violenza all’interno di quel sacro vincolo eterno ancora prigione durissima per molte.
Nel 1975 fu riformato il diritto di famiglia, riposizionando il ruolo della donna con poteri, diritti e doveri verso il coniuge e verso la prole, equiparati a quelli del marito. Non più padre-padrone e marito-padrone, almeno sulla carta.
Nel 1978 a noi donne venne garantito il diritto all’aborto, ancora oggi contestato in molte parti del mondo ed anche in Italia messo in crisi dalla prepotenza numerica degli/ delle obiettori di coscienza.
Ma bisogna aspettare il 1996, l’altro ieri anche per i più giovani, per mettere nero su bianco che la violenza sessuale è un reato contro la persona e non contro la morale pubblica e il buon costume. È da soli circa 30 anni che veniamo considerate soggetti degni di tutela, dunque i padri e le madri che dovrebbero educare alla parità e ai sentimenti, sono i figli, a volte mestamente fedeli, di quei principi patriarcali che le leggi hanno cominciato a cambiare. Ci chiediamo come sia possibile una rivoluzione, un’educazione sentimentale fatta da figli e figlie di questa cultura malatissima e machista, che anche le tante affermazioni contro la sorella di Giulia Cecchettin, hanno messo in luce.
Nilde Iotti, in un tempo bianco e nero, ci ricordava che per i diritti che pensiamo di avere acquisto, noi donne dobbiamo impegnarci ogni giorno. Quello che sul campo, faticosamente, ci siamo portate a casa, viene mortificato ogni giorno, ad ogni assoluzione per il molestatore di turno, ad ogni ridimensionamento dell’accaduto, ad ogni morta ammazzata. Forse, dovremmo ricominciare a combattere, mentre educhiamo ai sentimenti i nostri e le nostre figlie.
La violenza di genere e le relazioni tra pari in adolescenza
Molte e molti di noi possono essere portati a pensare che questo squilibrio fra i generi sia un fatto legato al passato, alle vecchie generazioni, ed è anche per questo che i casi come quello di Giulia Cecchettin ci ha tanto scosso. Ci domandiamo ma come mai un ragazzo, un giovane uomo, commetta un omicidio per gelosia, per possesso, come possa pensare che un no sia un si.
Spogliamoci delle nostre certezze, perché i numeri che ora vedremo sono poco rassicuranti, sono una bomba ad orologeria per ogni ragazza che va a scuola, che esce, che ama. Parlano di maschi poco consapevoli rispetto ai propri comportamenti.
Un’interessantissima indagine firmata da Fondazione Libellula, realizzata fra giovani tra i 12 ed i 18 anni, sui temi della violenza di genere, ci restituisce uno scenario agghiacciante sul pensiero dei ragazzi e dei loro rapporti insani con l’altro sesso.
Cosa pensano i ragazzi sulla violenza ed il consenso:
- richiedere con insistenza foto intime è violenza per il 78% delle ragazze, contro il 54% dei maschi
- condividere immagini senza consenso è violenza per l’80% delle ragazze contro il 60% dei maschi
- quando una ragazza dice di no in realtà vorrebbe dire di sì, non è vero solo per il 22% dei maschi
- subire violenze da parte del ragazzo a seguito di un tradimento è inaccettabile per il 79% delle ragazze contro il 33% dei maschi.
Questi dati sono allarmanti e rappresentato la fotografia di tutti quei titoli di cronaca che siamo ormai abituati a leggere. Non sono patologie, contesti di degrado a scatenare le azioni degli autori dei reati contro le donne, ma principi ben saldi e radicati, percentuali alla mano.
Dopo questi numeri dovremmo cominciare ad analizzare i nostri comportamenti, il nostro linguaggio, anche la cultura e la sotto cultura musicale e cinematografica che non mettiamo in discussione, anzi che alimentiamo, sottoponendola senza spirito critico in famiglia.
Educazione sentimentale: a scuola e a casa
Tutti parlano della necessità di un’educazione ai sentimenti, dopo la morte di Giulia Cecchettin. Politici, giornalisti, opinionisti, esperti. Eppure, mercoledì 22 novembre, mentre al Senato si doveva discutere del ddl contro la violenza sulle donne, i banchi erano vuoti, a parte quelli occupati da una scolaresca. Forse, ancora oggi, della violenza sulle donne, importa poco sia agli uomini che alle donne.
Educare ai sentimenti, alle emozioni, al rispetto. Si discute di questo da giorni, si parla di come farla diventare una materia scolastica. Ma non sono tutti d’accordo che questa sia la strada giusta.
Daniela Lucangeli, tra le altre cose, professoressa di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione presso l’Università degli Studi di Padova, esperta di psicologia dell’apprendimento, ha ricordato in queste ore che più di un docente pronto ad entrare nelle aule con delle schede dedicate alle emozioni, sono queste ultime che vanno recuperate dagli adulti educanti. Lucangeli commenta l’eventualità di introdurre un corso o di un materia ad hoc, ricordando ed evidenziando che l’affetto, i sentimenti dovrebbero essere insiti nell’educazione, e che più di esercizi a scuola su di essi, sarebbe necessario intervenire con un piano di formazione profonda per gli adulti che a scuola ci lavorano. In questo modo si consente il recupero della dimensione affettiva durante tutto il lungo periodo impegnato ad educare i giovani e le giovani. È attraverso questo che avviene l’educazione ai sentimenti, secondo la dottoressa.
A casa le cose non vanno meglio e lo si vede non solo per le tante pagine social aperte, nelle quali le gesta di Turetta vengono giustificate, ma anche per la mancanza di quel tempo prezioso che con i nostri figli e figlie dovremmo passare anche in termini di dialogo, confronto, dibattito. Sono allarmi che ogni giorno più psicanalisti, psichiatri, filosofi contemporanei ci lanciano, da Galimberti a Recalcati a Crepet. Solo per citare i più noti e coloro che più si spendono anche in divulgazione sui social.
E se qualcosa, forse, viene fatto nelle mura domestiche dove ci sono delle figlie, anche solo per metterle in guarda dalla possibilità di incontrare un lupo all’ora dell’aperitivo, altrettanto non viene ancora fatto nelle case dei ragazzi. Ritenuti da sempre coloro per i quali l’educazione segue una strada più rapida e facile. Quei dati di cui sopra lo dimostrano. Il limite fra il lecito ed il non lecito, fra lo scherzo e la molestia, fra l’agire ed il guardare, troppi dei nostri figli non ne è consapevole. Perché non tutti i nostri ragazzi saranno o sono stati come Turetta, ma troppi hanno taciuto, minimizzato, guardato, omesso, senza fare nulla.
Durante una manifestazione organizzata per Giulia, una ragazza, urlando la sua rabbia in un megafono, ha chiesto a tutte le presenti che avessero subito anche una sola molestia, di alzare una mano. Sempre troppe le mani alzate ma, forse, sarebbe stato ancora meglio aggiungere un’altra domanda anche ai tanti ragazzi presenti: quanti di loro di una violenza, di una molestia sono stati testimoni. Quanti hanno minimizzato, quanti non sono intervenuti. Quanti, infine, sono stati autori, una o più volte, di qualsiasi forma di violenza.
Ecco, se i maschi, sin da giovanissimi, non vengono educati al rispetto, all’uguaglianza fra i generi, alle emozioni, all’empatia, ai sentimenti, alla consapevolezza sulle responsabilità delle proprie azioni, possiamo solo aspettarci che non una, non cento, non mille mani si alzino, ma tutte. Che ci piaccia o meno, quel maschilismo e quel patriarcato di cui tanto ci stiamo riempiendo la bocca sono parole vuote, piene di fatti concreti.