Per la prima volta, il trono di Pietro è occupato da un uomo venuto dall’altra parte dell’oceano, figlio del Midwest americano e missionario nelle periferie del Perù. Robert Francis Prevost è il nuovo Papa. Un nome che fino a ieri conoscevano solo gli addetti ai lavori, oggi sulla bocca di tutti. Silenzioso, pragmatico, poliglotta, con un passato che profuma di strade polverose, apiari nascosti e libri di diritto canonico letti sotto una lampada fioca. È l’uomo che ha rotto la tradizione, il primo papa americano. Ma chi è davvero quest’uomo che sorride poco, parla piano e sta già riscrivendo la storia?
Robert Francis Prevost, chi è Papa Leone XIV, il primo statunitense
Robert Francis Prevost è il nome che oggi fa la storia. È lui il nuovo Papa. È lui, il primo papa americano. Un uomo riservato ma determinato, schivo con i media ma influente nei corridoi vaticani, che dalla periferia del mondo — la città peruviana di Chiclayo — è approdato al cuore pulsante della Chiesa. Ma chi è davvero Robert Francis Prevost, oltre il ruolo e oltre la tonaca? Dietro ogni pontefice c’è una storia personale fatta di vocazione, studi, sacrifici, e nel suo caso anche di lingue parlate (ben sette), missioni nel sud del mondo e silenzi pieni di significato.
Il suo nome circolava da tempo tra i cardinali riuniti per il conclave, ma è solo nelle ultime ore che ha conquistato la fumata bianca. Un’elezione che rompe con secoli di tradizione: con lui, infatti, per la prima volta nella storia della Chiesa, sale al soglio pontificio un uomo nato negli Stati Uniti.

Dall’Illinois alle Ande: una vita in viaggio
Robert Francis Prevost nasce a Chicago nel 1955. Cresce in una famiglia cattolica e multiculturale che gli trasmette valori forti, una madre profondamente devota e un padre amante della lettura: un binomio che sembra averlo plasmato. Nonostante la città americana fosse allora in piena espansione urbana e sociale, il giovane Prevost sogna una vita lontana dal clamore. Dopo gli studi alla Villanova University in Pennsylvania e alla Catholic Theological Union di Chicago, arriva la scelta che cambierà tutto: entra negli Agostiniani.
Nel 1985, appena trentenne, parte come missionario per il Perù. Lì, tra i quartieri poveri di Trujillo e le difficoltà della comunità di Chiclayo, Prevost costruisce una nuova identità: quella del “padre vicino”, che celebra messa con i piedi nella polvere e ascolta confessioni tra le capanne di fango. Una vocazione concreta, fatta più di presenza che di parole.
Nel frattempo, studia, insegna diritto canonico, guida le vocazioni, e viene persino nominato giudice ecclesiastico. Tornerà a Chicago solo per brevi periodi, ma nel 1999 viene eletto superiore provinciale degli Agostiniani della città. Pochi anni dopo, sarà a capo dell’intero ordine mondiale, con sede a Roma: un ruolo che lo porta a viaggiare ovunque — dall’India alla Nigeria — parlando italiano, spagnolo, francese, portoghese, e persino tedesco e latino.

Le passioni nascoste (e il mistero della sua riservatezza)
Nonostante sia sotto i riflettori, Robert Francis Prevost continua a mantenere un profilo basso. Pochissime interviste, nessun libro autobiografico, pochissimi discorsi pubblici prima dell’elezione. Ma chi ha avuto modo di lavorare con lui racconta di un uomo profondamente umano, con un’ironia sottile e un amore immenso per la musica sacra — in particolare per il canto gregoriano e Bach. Si dice che suoni il pianoforte, e che nei momenti di stanchezza ami isolarsi con un libro in latino.
Appassionato di viaggi, ha sempre scelto mete lontane: missioni rurali, luoghi sperduti, comunità indigene. Ha trascorso mesi interi in conventi senza acqua corrente, parlando con famiglie che vivono con pochi dollari al mese. È questo che, per molti, ha reso la sua spiritualità autentica.
Pare ami camminare al mattino presto nei giardini del Vaticano, indossando scarpe da trekking sotto la tonaca, e che abbia una passione per le api e l’apicoltura, scoperta durante i suoi anni in Perù. In uno dei rari racconti personali, ha detto: “Coltivare miele è come curare anime: richiede pazienza, rispetto, e il sapere che il dolore punge, ma può anche portare dolcezza”.