Parlare di terapia, in un’epoca in cui i riflettori si sono accesi su tematiche legate alla salute mentale e al benessere psicologico come non era mai stato prima, non è più un tabù. Nel nostro Paese, per esempio, un sondaggio condotto da Ipsos in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale ha rivelato che il 55% degli italiani si prende cura del proprio benessere mentale e le cose non poi così diverse negli altri Paesi europei.
Le forme di terapia sono tante e diverse e variano a seconda degli orientamenti psicoterapeutici adottati dagli esperti. Tra queste c’è anche la Wilderness Therapy, una forma di terapia sconosciuta ai più della quale ci si è iniziati a interessare lo scorso anno dopo che un gruppo di adolescenti ha raccontato la propria esperienza personale sui social network.
Come il nome stesso suggerisce, questa terapia nella natura selvaggia prevede che i pazienti siano curati in ambienti naturali, e all’aperto, che assomigliano ai più conosciuti campus estivi. Spesso si tratta di giovanissimi e di adolescenti che hanno problemi di salute mentale o un passato di dipendenze e che vengono introdotti in questi programmi esperienziali. Eppure, anche se avvallati dalle più nobili intenzioni, negli ultimi anni questi sono stati messi in discussione. Sì perché c’è un lato oscuro nella “Wilderness Therapy” e questo è stato raccontato da chi l’ha vissuto.
Cos’è la Wilderness Therapy
Nel dicembre del 2022, tra le tante tendenze che impazzano su TikTok, sono apparsi dei video che non sono passati inosservati. Non si tratta dei balletti ai quali siamo abituati ma di racconti tutt’altro che felici. Di testimonianze di ragazze e ragazzi provenienti da diverse parti del mondo che hanno sperimentato sulla loro pelle la Wilderness Therapy.
Prima di scoprire le loro storie, però, è necessario un approfondimento su questa terapia nella natura selvaggia che, all’apparenza, non sembra avere nessun lato oscuro. Come abbiamo anticipato si tratta di un programma terapeutico che viene svolto, principalmente, in ambienti esterni e che nella maggior parte dei casi viene pensato appositamente per giovani e adolescenti problematici.
La prima criticità di questa terapia sta proprio nella mancanza di una definizione assoluta e univoca, che varia da Paese in Paese, e che quindi ha generato un po’ di confusione. C’è chi, infatti, parla di Wilderness Therapy per indicare tutta una serie di esperienze di natura selvaggia, chi la identifica nel campeggiare lontano dalla città e chi la paragona a dei veri e propri campi avventura. Queste divergenze, però, hanno scatenato diversi dubbi sull’efficacia terapeutica del metodo, avvallati poi in maniera drammatica da numerose segnalazioni di abusi e di decessi che si sono susseguiti nel tempo.
Un tentativo di fare chiarezza sulla Wilderness Therapy è avvenuto qualche anno fa da parte dei docenti Natalie Beck e Jennifer Wong che hanno identificato tre programmi terapeutici: uno molto simile alle avventure esplorative, della durata inferiore alle 8 settimane, uno somigliante ai campus estivi, con soggiorno nella natura ed escursioni, e un’altro che combina le due cose e che può durare anche fino a due anni.
Funziona davvero?
Oltre alla definizione stessa della Wilderness Therapy e dei programmi che prevedono attività a contatto diretto con la natura, quello su cui si sono concentrati maggiormente gli esperti nell’ultimo periodo è l’efficacia. Funziona davvero questa terapia?
Fermo restando che i benefici psicologici e fisici del contatto con la natura sono riconosciuti da tutti, e che riguardano persone di ogni età e ogni sesso, non è stato mai possibile rilevare quando questi programmi siano davvero attendibili, anche a causa della loro natura diversa e variegata. Quello che invece si sa per certo, purtroppo, è che la maggior parte degli adolescenti coinvolti nella Wilderness Therapy sono stati obbligati a prendere parte a questi programmi.
Gli esperti, inoltre, hanno più volte evidenziato la necessità di approfondire le questioni relative alla sicurezza dei partecipanti, trattandosi di situazioni potenzialmente estreme.
Le testimonianze
Il 14 novembre del 2022, poco prima dell’esplosione del caso Wilderness Therapy su TikTok, il Guardian accende per primo i riflettori su questo approccio terapeutico raccogliendo le testimonianze di chi, quella terapia, l’ha sperimentata sulla propria pelle.
L’articolo si apre con il racconto di Rowan Bissette che, all’epoca dell’inserimento del programma, aveva solo 16 anni. Fu trasportata contro la sua volontà dalla Florida allo Utah da due uomini che non conosceva: anche se era già stata in terapia per curare i suoi comportamenti autolesionistici non si era mai allontanata così tanto da casa. Furono i genitori a scegliere per lei questo programma di terapia intensiva, convinti che questa volta avrebbe funzionato.
Dopo essere stata rinchiusa al Sunrise Residential Treatment Center a Hurricane, Rowan viene mandata a WinGate per seguire un programma di Wilderness Therapy. In quel campo Rowan è stata molestata sessualmente, minacciata, costretta a camminare per chilometri, in pieno giorno, nel bel mezzo del deserto. Ha vissuto di stenti, con il minimo fabbisogno calorico, e alla fine ha ricominciato a farsi del male. Sei anni dopo quell’esperienza, Rowan, sta ancora curando il disturbo da stress post traumatico che tutto questo le ha provocato.
Non è l’unica storia, quella di Rowan Bissette, che trova conferma sia nelle altre testimonianze che nelle indagini condotte dal Government Accountability Office degli Stati Uniti. Secondo i dati raccolti dall’ente, infatti, nel Paese sono state registrate più di 1500 denunce in 33 stati contro i dipendenti di questi centri a causa delle restrizioni eccessive e della violenza.
Al racconto di Rowan, lo scorso anno, si sono aggiunti anche quelli di altri ragazzi che hanno vissuto un’esperienza simile. Tutte le storie narrano di prelievi forzati, spesso avvenuti in piena notte e contro la volontà dei diretti interessati. Una di questa, condivisa su TikTok, si intitola: When My Parents Paid Two Strangers 6k To Kidnap Me.
Alcuni ragazzi hanno dichiarato di aver perso degli amici per colpa di questi programmi, altri hanno affermato di essere stati privati della loro stessa identità. Altri ancora non hanno potuto unirsi al coro perché sono morti.
È morta Kristen Chase che a soli 16 anni, e dopo pochi giorni dall’arrivo a un Therapy Camp, ha perso la vita a causa di un colpo di calore. Ha perso la vita anche William Edward Lee, nel 2000, a causa di un trauma cranico provocato dal personale del centro. Anche Ian August non ce l’ha fatta e ha soli 14 anni ha perso la vita per ipertermia. Lane Lesko, invece, è morta nel 2016 durante un tentativo di fuga dal campo.