“Mi chiamo Francine Christophe e sono nata nell’anno in cui Hitler ha preso il potere”

Questa è la storia di Francine Christophe, e di quel pezzo di cioccolato donato nel campo di concentramento che è diventato il simbolo di umanità

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Sabina Petrazzuolo

Lifestyle editor e storyteller

Scrittrice e storyteller. Scovo emozioni e le trasformo in storie. Lifestyle blogger e autrice di 365 giorni, tutti i giorni, per essere felice

Era il 1933 quando, sfruttando la sua grande abilità oratoria e l’insoddisfazione che vigeva tra le classi medie del Paese, un uomo presentò il suo manifesto politico, arrivando a guadagnarsi un posto nella Cancelleria tedesca. Le sue idee erano chiare, e oggi conosciute a tutti, ed estremizzavano al massimo il nazionalismo svuotando il valore di qualsiasi altra realtà politica e sociale estranea alla Germania. Quell’uomo era Adolf Hitler.

Capo del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori, dopo la morte del presidente Paul von Hindenburg, Hitler scelse da solo il suo destino, proclamandosi Führer e Cancelliere del Reich, accentrando tutti i poteri dello Stato e dando vita a uno dei più aggressivi e violenti regimi dittatoriali. Tutto il resto è storia che non si può dimenticare.

Quello stesso anno, in Francia, nasceva Francine Christophe, scrittrice e poetessa di origine ebraica che, insieme a sua madre, visse l’orrore della persecuzione nazista all’interno del campo di concentramento di Bergen-Belsen. La sua storia, mantenuta in vita dalla sua voce, dalla penna e dalla memoria, è arrivata fino ai giorni nostri diventando la testimonianza dell’orrore che non si può dimenticare, ma anche il simbolo del coraggio e dell’amore.

Francine Christophe, l’ebrea privilegiata

La storia di Francine Christophe comincia il 18 agosto del 1933. Nasce nel 17° arrondissement di Parigi ed è figlia di una famiglia borghese di origine ebraica non praticante. È ancora una bambina quando, alla sola età di 8 anni, si vede costretta a lasciare la sua casa, insieme a sua madre, per sfuggire alla persecuzione degli ebrei messa in atto dal regime nazista. Proprio mentre si trova sulla linea di confine a La Rochefoucauld viene catturata dalle forze dell’ordine e trasportata nella prigione di Angoulême.

Mi chiamo Francine Christophe. Sono nata il 18 agosto 1933. Il 1933 è l’anno in cui Hitler prende il potere. Ecco: questa è la mia stella. La porto sul petto, naturalmente, come tutti gli ebrei. È grande, vero? Soprattutto su un petto di un bambino, poiché avevo 8 anni in quel momento (Human, documentario diretto da Yann Arthus-Bertrand)

La stella di Francine Christophe
Fonte: SIPA/ullstein bild via Getty Image
La stella di Francine Christophe

La prigione è solo la prima tappa di un viaggio verso l’inferno dall’epilogo sconosciuto. Francine Christophe viene portata a Poitiers, insieme agli altri ebrei, poi trasportata a Drancy, dove vivono le mogli dei prigionieri di guerra.

Si considera una privilegiata Francine. “Non lo dico con ironia”, aggiunge nei numerosi scritti che ci ha lasciato in eredità. Suo padre, Robert, è infatti un ufficiale dell’esercito francese, catturato nel 1939. È un prigioniero di guerra, e per la convenzione di Ginevra, sua figlia e sua moglie devono ottenere un trattamento diverso dagli altri.

E in effetti, Francine e sua madre Marcelle, dopo essere state in prigione, vengono deportate nel 1944, ma la loro destinazione non è un campo di sterminio, ma quello di concentramento. A Bergen-Belsen, dove c’è anche Anne Frank, le persone non vengono uccise, ma le condizioni di vita sono così drammatiche che la sopravvivenza non è scontata.

È una privilegiata Francine, e come tale può portare con sé una piccola borsa contenente i suoi oggetti personali. Poche cose, ma quelle che bastano a trovare conforto nei momenti più bui. Così fa anche sua madre, che in quel piccolo sacco decide di conservare un po’ di cioccolato per la sua bambina.

Appena un anno dopo dall’arrivo di Francine e sua madre, l’incubo finisce. È l’aprile del 1945 e a Bergen-Belsen arrivano gli alleati. Quella bambina, ormai quasi adolescente, torna in Francia con una promessa: quella di raccontare la sua storia e quella di chi non ce l’ha fatta, di diventare testimone della Shoah attraverso la sua voce, la sua penna e la memoria.

Quel pezzo di cioccolato che è diventato simbolo di umanità

Ed è proprio grazie alle numerose testimonianze di Francine Christophe che abbiamo potuto scoprire una storia, quella che parla del seme dell’umanità piantato dove altri avevano scelto di distruggerla.

Non solo libri e conferenze, Francine si è resa voce della memoria in uno struggente documentario diretto da Yann Arthus-Bertrand e presentato al Festival del Cinema di Venezia del 2015 in occasione del settantesimo anniversario della Liberazione. In Human, la poetessa e scrittrice francese, ha raccontato la sua esperienza personale, quella di ebrea privilegiata, ma anche di un piccolo gesto d’amore che ha cambiato l’esistenza di più vite che sembravano già segnate in quel campo dell’orrore.

Poco dopo l’arrivo a Bergen-Belsen, infatti, Francine e Marcelle fanno amicizia con Hélène, che non solo deve sopportare la vista dell’inferno, ma deve convivere con il fatto che suo figlio nascerà proprio qui, nel luogo dove non esiste più umanità.

Hélène viene aiutata a partorire dalla mamma di Francine che si occupa della gestione della sezione dove le tre vivono. La situazione non è facile, soprattutto emotivamente. Così Marcelle chiede a sua figlia se può dare quel pezzo di cioccolato portato dalla Francia alla ragazza, così da rendere meno buio quel momento.

E allora, se permetti, mi disse mia mamma, il pezzo di cioccolato lo darò alla nostra amica Hélène, che ne ha bisogno. Nacque una bambina, Yvonne. Era magrissima e non piangeva mai, neanche un gemito. Quando, sei mesi dopo, le truppe sovietiche liberarono Bergen-Belsen, iniziò improvvisamente a gridare. Era come se fosse nata davvero solo in quel momento.

Dopo la liberazione Francine ritorna in Francia, insieme a sua madre, e da suo padre. Diventa scrittrice e docente, nonché testimone dell’Olocausto. Sposa Jean-Jacques Lorch e da quell’unione nasceranno due bambini, un maschio e una femmina.

È proprio sua figlia, qualche anno fa, a chiederle se per caso un supporto psicologico avrebbe potuto aiutare tutte le persone imprigionate nei campi una volta tornati alle loro vite. Una domanda, questa, che Francine non si è mai posta fino a questo momento, ma che diventerà il tema di un convegno sull’argomento organizzato dalla stessa scrittrice.

Ho organizzato così una conferenza sul tema: “E se ci fossero stati degli psicologi nel 1945 al nostro ritorno dai campi, come sarebbe andata?” C’era molta gente: sopravvissuti, ex prigionieri, curiosi e molti psicologi, psichiatri e psicoterapeuti, tutti coinvolti. Ognuno aveva la sua opinione, è stato molto utile.

Proprio in quella occasione, una donna di origini francesi si fa spazio tra gli altri. Si tratta di un medico psichiatra che vive a Marsiglia e che non vuole solo dare il suo contributo al convegno, ma ha qualcosa da restituire a Francine Christophe: un pezzo di cioccolato. Si tratta di Yvonne, la figlia di Hélène, la bambina nata nel campo di concentramento di Bergen-Belsen.

Bergen-Belsen
Fonte: Moritz Frankenberg/picture alliance via Getty ImagesBergen-Belsen
Bergen-Belsen Memorial