Ci sono pagine nella storia, non solo del nostro Paese ma dell’intero pianeta, che avremmo preferito non leggere mai. Sono capitoli oscuri che lasciano profonde cicatrici nell’animo di ognuno di noi.
Tra questi, l’Olocausto emerge come uno dei periodi più terribili e disumani, in cui milioni di esseri umani innocenti furono perseguitati e annientati. Questo orribile genocidio, perpetrato con una freddezza e una crudeltà inimmaginabili, continua a essere un ricordo doloroso di quanto l’odio possa essere distruttivo. Le immagini dei campi di concentramento, le testimonianze dei sopravvissuti e i nomi incisi sui muri dei musei dedicati alla memoria di questa tragedia sono ferite ancora aperte, che non possono essere dimenticate.
In questo scenario, potrebbe essere poco nota a molti la storia di una giovane donna ebrea che, durante quel periodo, voltò le spalle al suo stesso popolo, diventando complice dei nazisti. Si chiamava Celeste Di Porto e il suo nome evoca ancora un’eco doloroso, il tradimento di un’anima che ha ingannato sé stessa e le sue radici.
Celeste Di Porto: la collaborazionista ebrea nell’ombra dell’Olocausto
Celeste Di Porto aveva appena 18 anni quando, in una giornata ordinaria di ottobre del 1943, i soldati tedeschi rastrellarono la comunità nel ghetto di Roma.
Era una donna di origini umili, conosciuta come la “stella di Piazza Giudia” per la sua straordinaria bellezza. Lavorava inizialmente come domestica per alcune famiglie ebree, ma in seguito ottenne un lavoro presso il ristorante Il Fantino, luogo rinomato per essere frequentato da molti fascisti. E così, la sua vita prese una piega completamente diversa.
In quel periodo, i nazisti incaricarono gli italiani di catturare gli ebrei che erano riusciti a sfuggire alla deportazione. Le strade di Roma divennero un inferno di caccia, con bande di fascisti che vagavano senza pietà per consegnare persone innocenti nelle mani dei tedeschi.
Tra le varie milizie, spiccava la banda di Cialli Mezzaroma, alla quale apparteneva anche Vincenzo Antonelli, un cliente abituale del ristorante con il quale Celeste, molto probabilmente, aveva un legame speciale.
Quell’incontro avrebbe cambiato il corso della sua storia. Celeste, infatti, si trasformò in una collaborazionista senza scrupoli, al servizio dei nazisti. Il suo cenno del capo era diventato un presagio di morte per molti dei suoi stessi correligionari, poiché senza pietà alcuna, consegnava gli ebrei nelle grinfie spietate dei soldati.
Tra le vittime, c’è anche Lazzaro Anticoli, un giovane di soli 26 anni, catturato in Via Arenula da tre fascisti. Il suo nome fu scelto per sostituire quello del fratello di Celeste, Angelo Di Porto. Venne trascinato con forza nella prigione romana di Regina Coeli, un luogo che divenne la sua ultima dimora. Prima di essere ucciso, Anticoli lasciò un messaggio inciso con un chiodo nella sua cella: “Sono Anticoli Lazzaro, detto Bucefalo, pugilatore. Si non arivedo la famija mia è colpa de quella venduta de Celeste Di Porto. Rivendicatemi“. L’indomani, il suo giovane corpo senza vita giaceva nelle Fosse Ardeatine.
Celeste fu soprannominata “La Pantera Nera“, una donna dal cuore freddo e calcolatore, pronta a tradire la sua stessa gente per il proprio tornaconto personale. Un tempo ammirata per la sua bellezza, ora era diventata il simbolo dell’infamia e del tradimento più profondo.
La storia di Celeste Di Porto: dal tradimento alla redenzione
Nel 1944, Roma fu liberata dalle forze anglo-americane, e la vita di Celeste Di Porto cambiò drasticamente. Decise di abbandonare il suo passato, insieme al suo vero nome, e si reinventò come Stella Martinelli. Napoli sembrava offrirle un rifugio sicuro, sperando che il caos del dopoguerra le garantisse un anonimato protettivo.
Tuttavia, il passato ha un modo tutto suo di tornare alla ribalta. Infatti, due sopravvissuti al rastrellamento di Roma, che si trovavano in città, la riconobbero e la fecero arrestare, mettendo fine alla sua brevissima fuga. Il 5 marzo 1947 iniziò il processo, in un’atmosfera carica di rabbia, dolore e desiderio di giustizia. La Pantera Nera, che prima era una predatrice, ora era diventata preda.
In tribunale, il Pubblico Ministero richiese una pena severa di 30 anni di reclusione. Ma il 9 giugno 1947, dopo un’intensa discussione della durata di otto ore nella stanza del consiglio, il giudice pronunciò la sentenza: 12 anni di carcere. Celeste venne riconosciuta colpevole di sequestro di persona e furto, crimini connessi ai gioielli che aveva rubato alle sue vittime.
Tuttavia, la sua storia non finì dietro le sbarre. Infatti, grazie a un indulto, il 10 marzo dello stesso anno Celeste uscì dalla prigione di Perugia. Da donna libera, decise di compiere un gesto di profonda trasformazione personale, abbracciando la fede cattolica e scegliendo di sottoporsi al rito del battesimo.
Un intenso sentimento di indignazione si diffuse tra la comunità ebraica. Tanto che, durante una cena in un ristorante romano, Celeste si trovò di fronte alla cruda e incontenibile rabbia di coloro che la riconobbero, desiderosi di linciarla. Questo la costrinse nuovamente a lasciare la sua città e a cercare rifugio altrove. Si trasferì prima a Trento e poi a Milano, sempre in fuga dal suo passato. Infine, tornò a Roma, città che un tempo aveva amato, per trascorrere i suoi ultimi anni fino alla sua morte nel 1981.