Roberta Recchia, la forza per accettare – e perdonare – tutto quello che resta

Intervista alla scrittrice che con due libri ha conquistato i lettori, grazie ad una scrittura appassionante e a storie dolorose ma piene d’infinito amore

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Sara Gambero

Giornalista esperta di Spettacolo e Lifestyle

Una laurea in Lettere Moderne con indirizzo Storia del Cinema. Appassionata di libri, film e del mare, ha fatto in modo che il lavoro coincidesse con le sue passioni. Scrive da vent’anni di televisione, celebrities, costume e trend. Sempre con un occhio critico e l'altro divertito.

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Una insegnante di liceo che decide di scrivere un libro da regalare a sua sorella, per caso lo invia ad una casa editrice per avere un parere professionale e si trova inaspettatamente travolta da un successo mondiale. Non è la trama di un libro ma la storia – vera –  di Roberta Recchia che con i suoi due primi romanzi Tutta la vita che resta e Io che ti ho voluto cosi bene (da leggere possibilmente in questo ordine) è entrata nel cuore di milioni di lettori. Non poteva essere altrimenti, grazie ad una scrittura che ti incolla alle pagine e a storie intrise di grande dolore e di immenso amore, di peccato e di perdono. L’unica forma d’amore, forse la più grande di tutte, capace di portare all’accettazione e alla rinascita.

Partiamo dal primo libro: Tutta la vita che resta. Come è nata l’idea di raccontare la sopravvivenza di una famiglia dopo un dolore  così “annientante”?
L’idea di Tutta la vita che resta è nata dal personaggio di Miriam, vittima di una violenza che le devasta l’esistenza. Dopo aver riflettuto sulle conseguenze del dramma che la colpisce, ho deciso di raccontare anche la storia della famiglia di Betta, l’altra vittima. Più che di sopravvivenza racconto di morte e rinascita, perché i protagonisti in qualche modo sono tutti annientati dagli eventi. Il trauma li cambia profondamente, li disperde, pone le loro esistenze in uno stato di sospensione. Il romanzo è un viaggio che parte da vite normali che vengono sconvolte e il punto di arrivo è la forza di accettare tutto quello che resta come atto d’amore verso se stessi e gli altri.

La “mostruosità” può nascere anche dentro le famiglie normali: hai preso spunto da qualcosa di autobiografico o accaduto vicino a te?
No, non c’è niente di autobiografico in questo senso. C’è solo una riflessione sul male, su quanto a volte sia difficile accettare che il mostro si celi in un’inquietante normalità. E su quanto l’equilibrio delle nostre vite sia delicato.

Sei una insegnante di liceo. Quanto ti ha ispirata il mondo degli adolescenti che vivi ogni giorno? E perché hai scelto di ambientare la tua storia negli anni ‘80?
Più che ispirarmi, il contatto quotidiano con loro mi ha dato maggiori strumenti per raccontarli. Anche se le generazioni cambiano, nella crescita ci sono fasi che accomunano i giovani di ogni epoca. La storia è ambientata negli anni Ottanta perché i miei personaggi erano già collocati in un contesto preciso e poi, con gli strumenti di indagine che abbiamo oggi, i colpevoli del crimine di cui racconto sarebbero stati individuati facilmente. Sarebbe stata un’altra storia, in una società diversa.

Nel libro è onnipresente, nel giudizio esterno ma anche interno alla famiglia, l’idea che Betta, con la sua bellezza sfacciata e il suo carattere libero, se la sia quasi cercata. Come se appariscenza ed esuberanza fossero ancora oggi uno scotto da pagare. C’è un riferimento voluto ai molti casi attuali di femminicidio?
Non c’è niente di “studiato”, in quello che scrivo. Non costruisco le storie a tavolino partendo da una tematica. Avevo dei personaggi, tutto quello che accade è un succedersi di cause ed effetti. Mi sono limitata a osservarli, ascoltarli. La forte personalità di Betta, la sua bellezza appariscente, la rendono preda di un branco che è il risultato di un’educazione patriarcale secondo cui le donne che non si piegano al volere del maschio vanno ammansite e, se necessario, spezzate. Non mi sono ispirata a un fatto di cronaca in particolare, però Betta è il simbolo di tante vittime di femminicidio colpevoli solo di voler essere sé stesse, libere da quegli invisibili confini tracciati dal carnefice e, troppo spesso, dalla società giudicante.

La madre e il padre di Betta reagiscono in maniera diversa al dolore. Nella loro differente – quasi opposta – reazione, cosa hai voluto dire?
Il dolore può essere vissuto in tanti modi diversi, tutti meritevoli del massimo rispetto. Il padre di Betta trova la forza di tornare a vivere la quotidianità, non può permettersi di arrendersi alla sofferenza, la madre invece si chiude in sé stessa, si isola. A volte le differenze nel modo di affrontare una tragedia possono allontanare, nonostante l’amore. La storia dei genitori di Betta è un’esortazione a non perdersi, a trovare forza nella vicinanza dell’altro.

Poi arriva Io che ti ho voluto così bene, se possibile ancora più struggente del primo. L’idea di raccontare la stessa tragedia dal punto di vista della famiglia del carnefice: da cosa è nata e perché?
Racconto la sofferenza di chi vive il dolore dalla parte “sbagliata”, di chi è costretto a subire le conseguenze delle atrocità commesse da una persona cara. Il giudizio nei confronti delle famiglie dei carnefici è spesso affrettato, crudele, perché si dà per scontata una complicità di qualche tipo. Difficilmente riflettiamo sul fatto che anche quelle persone stanno elaborando una forma di lutto: chi hanno amato non esiste più, si trovano faccia a faccia con uno sconosciuto che ha commesso un crimine che non sanno spiegarsi. Poi c’è il senso di colpa per non aver capito, colto i segnali, prevenuto.

Miriam non riesce a perdonarsi, Luca non riesce a perdonare: il perdono nei tuoi libri è un tema onnipresente. Sbaglio?
Spesso un fatto doloroso porta con sé una colpa. In entrambi i romanzi i personaggi sono chiamati a fare un percorso difficile e a confrontarsi anche con il perdono. In molti casi la rinascita passa proprio attraverso il perdono verso sé stessi e gli altri. Tuttavia, come tengo sempre a precisare, io racconto solo una delle mille storie possibili che possono svilupparsi partendo da un fatto traumatico.

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Mizio resta sempre sullo sfondo, fino alla fine. Il perdono che non riesce a dargli Luca è il tuo? O forse quello che hai pensato potessero sentire i lettori?
Il punto non è il mio perdono, né quello dei lettori. Il mio intento era rendere ogni personaggio credibile, coerente con il suo vissuto e la sua personalità. Ho cercato di raccontare la storia senza che le mie convinzioni ne influenzassero l’andamento. Lascio ai lettori la libertà di condividere o meno le scelte dei miei protagonisti, che per me hanno vita propria.

Quanto impieghi a scrivere un romanzo e come avviene la tua scrittura? Quando inizi hai già tutto in mente, o si srotola piano piano?
Scrivo abbastanza velocemente, entrambi i romanzi  hanno richiesto un impegno di circa quattro mesi e mezzo.  Quando inizio ho i personaggi, le loro voci da ascoltare e nient’altro. Comincio senza sapere dove mi porteranno, quindi anche per me la scrittura è una scoperta, un viaggio di cui conosco tutte le tappe solo alla fine.

Quando e perché hai deciso di diventare scrittrice? Hai uno scrittore/scrittrice che è stato un tuo punto di riferimento?
Il mio amore per la scrittura è cominciato a undici anni, però non ho mai “deciso” di diventare una scrittrice, non credevo di essere brava a sufficienza per arrivare in libreria. È stata la mia attuale agente, Laura Ceccacci, a farmi capire che lo ero. Per tanti anni ho scritto solo per necessità, per cercare un rifugio dalla realtà che non mi rendeva felice, senza mai prendere in considerazione la possibilità di essere pubblicata. Non ho uno scrittore di riferimento. Amo profondamente Flaubert, Maupassant, Balzac, ma sono talmente inarrivabili che mi limito ad ammirarli.

Un libro che ti ha cambiato la vita?
Sono due, entrambi bistrattati dalla critica. Il primo è Love Story, di Eric Segal, che ho letto per caso a dodici anni e mi ha fatto capire la potenza delle emozioni che una storia, anche semplicissima, raccontata con uno stile asciutto, può suscitare. Il secondo è Peyton Place, di Grace Metalious, che ho letto intorno ai vent’anni e mi ha fatto pensare: io vorrei proprio scrivere come questa signora qui. Ci sono poi stati tanti altri altri libri, anche infinitamente migliori, ma questi due hanno un posto speciale, perché mi hanno fatto capire in quale direzione volevo che andasse la mia scrittura.

Quale emozione vorresti provasse un lettore all’ultima pagina di un tuo romanzo?
Un senso di conforto. Racconto storie dure, difficili, però vorrei sempre congedare il lettore con una luce di speranza. E poi mi piacerebbe che restasse una sensazione di appartenenza al mondo che ho raccontato, un legame che duri nel tempo: sarebbe bello se i miei personaggi, in qualche modo, continuassero a far parte della vita dei miei lettori anche a libro chiuso.

L’incredibile successo del tuo primo libro ti ha sorpresa o sentivi nel tuo cuore di aver scritto qualcosa di davvero “forte”?
Sorpresa è dire poco. Ho scritto Tutta la vita che resta esclusivamente per regalarlo a Natale a mia sorella (in formato pdf, quindi neppure stampato), ecco perché mi viene da sorridere quando sento qualcuno affermare che è un romanzo creato a tavolino per avere successo.  Non mi aveva neanche sfiorato il pensiero di pubblicarlo, l’avevo inviato all’agenzia letteraria solo perché ero curiosa di avere un parere professionale. Quindi l’accoglienza che ha ricevuto era del tutto inaspettata. La mia agente e l’editore erano decisamente più ottimisti e convinti di me.

Sei già all’opera su qualcosa di nuovo?
Sì, però con un po’ più di fatica rispetto al passato, perché adesso ho molto meno tempo da dedicare alla scrittura e sento di più il peso delle aspettative. Mi sto prendendo un periodo più lungo proprio per dedicare al nuovo romanzo la giusta attenzione.

Un’ultimissima domanda che faccio sempre agli scrittori che amo: Hai un consiglio, un suggerimento, una ricetta magica per avvicinare i giovani di oggi – distratti da mille device – alla lettura?
Dico: avvicinatevi alla lettura scegliendo quello che volete, qualunque cosa, non fatevi condizionare dal giudizio altrui. Il primo stimolo deve essere la curiosità poi, a mano a mano che si cresce, ci si avvicina a libri più impegnativi. L’importante è imparare a vedere e a sentire quello che scorre fra le pagine, allenare l’immaginario e l’empatia.  La mia passione per la lettura è nata grazie a libri molto commerciali, mi sono avvicinata alla grande letteratura tardi, dopo i vent’anni, quando avevo la maturità giusta. Tuttora sono una lettrice onnivora, entro in libreria senza pregiudizi, e ne sono orgogliosa.

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