“Avendo due figli maschi grandi che hanno ormai la loro vita, questo periodo mi ha dato la gioia di ritrovarli, poter passare del tempo assieme a loro nella quotidianità. E’ stato un bel momento, unico”. Non c’è inquitudine e neanche particolare stanchezza nella voce di Rita Pavone, quando racconta come ha trascorso il famigerato lockdown. Sarà che l’estate ha appena bussato alla sua porta, lei che è una creatura così solare. Sarà che la “Resilienza 74” – dal numero dei suoi anni – di cui ha cantato quest’anno a Sanremo, andava pure in qualche modo messa in pratica.
Con quasi 60 anni di carriera alle spalle – di cui i primi trascorsi in America – Rita è diventata maestra di resilienza, imparando soprattutto che – indipendemente dall’età – “tocca tutti quanti: la vita ci regala sempre un gran momento di gioia, che subito viene pareggiato da un momento di difficoltà”.
“La partita di pallone”, “Come te non c’è nessuno”, “Fortissimo”, “Datemi un martello”, “Il ballo del mattone”, “Geghegè”, “Cuore”, “Viva la pappa col pomodoro”, sono solo alcuni dei successi incredibili (oggi verrebbero definiti”hit” o “tormentoni”) che Rita ha portato al successo, in un contesto socio-culturale molto differente da quello in cui viviamo attualmente, quello di un’Italia perbenista nella quale anche il matrimonio tra lei e Teddy Reno aveva destato scandalo.
Poco prima del lockdown – il 28 febbraio per la precisione – è uscito per BMG il doppio CD, e a grande richiesta il 15 maggio anche il vinile in edizione limitata di “RaRità”!”, una raccolta di tutti i brani più famosi di Rita in versioni inedite e non solo, che lei stessa definisce come “la punta dell’iceberg di questi 58 anni di carriera”. Abbiamo raggiunto Rita Pavone, con la quale abbiamo parlato di amore, di Instagram e di “chi gliel’ha fatto fare di tornare a Sanremo alla sua età”.
Nella foto di copertina di “RaRità!” indossi una t-shirt con la scritta “love”, ma contemporaneamente un paio di pantaloni attillati in pelle decisamente aggressivi, segnale che in te convivono più caratteri diversi. Quante Rita Pavone esistono?
Esiste innanzi tutto una Rita Pavone che nella vita è una donna molto normale: si occupa del giardino, gioca con il cane, va a fare la spesa. Poi c’è un’altra Rita, che è quella artistica. Lei sì che ha una faccia tosta: non ha paura di nulla, affronta tutto e tutti con grande tranquillità. Poi c’è la Rita madre di famiglia, con due figli meravigliosi, appagata dalla propria vita. E un’altra Rita ancora: aggressiva, che quando vede delle ingiustizie si arrabbia. Tutte loro convivono bene assieme, hanno i loro spazi e sanno camminare nella stessa direzione. É anche il segreto della mia vita artistica, il motivo per cui è durata così tanto e spero lo faccia ancora: posso essere rock, ma posso essere anche dolcissima. Posso essere divertente, ma posso essere anche maliziosa. Ci son tante sfaccettature di Rita che mi fanno essere nella vita quella che è l’artista nel lavoro, e viceversa.
Possiamo dire che come te non c’è nessuna: tu sei unica al mondo. Cos’è che rende unica una donna?
Non è tanto la bellezza, l’esteriorità o l’eleganza, ma qualcosa che infonde certezza. Si cerca in una donna ciò che assomiglia ad una sicurezza. Pensa a me, ho sposato un gran figo perché anche l’occhio vuole la sua parte. Eppure lui dice sempre: “Ho avuto attorno a me tante belle donne, ma quello che ho trovato in te non l’ho mai trovato in nessuna”. Non so dire di preciso cosa abbia trovato in me, anche se sono cinquantadue anni che siamo sposati. So che è accaduto qualcosa, ci siamo riconosciuti a vicenda ed è scattato un meccanismo: non sai precisamente identificarlo, ma sai che c’è. Ed è quello che fa la differenza. Quando ti innamori all’inizio, hai le farfalle nello stomaco, ma poi le farfalle passano, non ci sono più neanche le aquile.
Dopo c’è la routine.
Come riesci a mantenere questa routine, è questo l’ingrediente che fa durare una storia e la rende unica.
Spesso hai cantato queste storie, facendone oggetto della tua musica: com’è cambiato l’amore tra ieri e oggi?
Quando parlo della mia esperienza personale, dico sempre che ognuno è figlio della propria epoca. Io vengo da una famiglia nella quale le ragazze dovevano sposarsi essendo ancora internamente candide. Oggi non è più così, ma all’epoca era molto importante. L’amore io l’ho vissuto in maniera felicemente disperata: ho capito che la persona che amavo era la stessa che volevo sposare. E mi dava profondamente fastidio chi mi diceva che il matrimonio avrebbe rovinato la mia carriera. Per me è stata dura innamorarmi nel 1964 e aspettare fino al 1968 quando ci siamo sposati, è stata una lunghissima prova, anche di resilienza. Avevo promesso a mia madre (mio padre era invece contro questo matrimonio) che sarei arrivata all’altare così com’ero e questa promessa l’ho mantenuta.
Oggi esiste ancora l’amore?
I tempi sono sicuramente diversi, non so se è giusto così, non lo posso dire. Posso dire però che sono molto felice di avere due figli maschi. (ride) É cambiato il mondo e come spesso succede si è passati da una chiusura ad un’apertura totale. In questo caso sarebbe stata giusta invece una via di mezzo. Era bello poter scoprire l’altra persona per gradi e sognare un po’, ti faceva crescere.
A proposito di tempi che cambiano, come ti stai trovando su Instagram?
Seguo quello che dice mio figlio Giorgio, perché ho avuto delle esperienze che preferisco non ricordare. Ognuno è figlio del proprio tempo: questo non è il mio. Nella mia ingenuità da signora anziana, davo per scontato che chiamandosi “social”, si potesse socializzare. E invece mi sono trovata davanti a tante cattiverie gratuite, alla rabbia che cova nelle persone. Dicevano che il Covid avrebbe portato la gente a capire che la vita è uno sparo, una volta che il colpo è partito non puoi più tornare indietro. Invece non è stato così: le persone cattive lo sono ancora di più e quelle per bene sono diventate quasi remissive. Per cui – adesso – mi diverto a scattare le fotografie, girare i video e far emergere i ricordi, ma lascio poi che siano gli altri a metterli online.
Prima della pandemia che citavi, questa sembrava per te un’ottima annata. Che effetto ti ha fatto tornare dopo 48 anni a Sanremo?
Risalire su quel palco è stata una botta di adrenalina, mi sono divertita un sacco e la sensazione che ho provato quando Amadeus ha annunciato il brano e il mio nome, è stata come quella di una botta al cuore, un’ubriacatura. Ci avevo già provato nell’era “baudiana”, eppure – nonostante avessi inviato canzoni divenute poi dei successi, come ad esempio “Finito” – non aveva sortito alcun effetto e non ci avevo quindi più pensato. Finché un giorno, ho chiesto a mio figlio di scrivermi una canzone, che fosse come me: un po’ rock e un po’ sentimentale. All’inizio era titubante, perché lui scrive sempre in inglese. Ma ho insistito. Un giorno è arrivato con un cd da ascoltare, dicendo che aveva scritto qualcosa per me. Sono rimasta letteralmente stupita: avevo trovato qualcosa che realmente mi identificava. Così ho provato a mandarla ad Amadeus: male che mi fosse andata da 48 anni sarei passata a 49. E infatti così ero convinta, perché fino all’inizio del nuovo anno nessuno mi aveva ancora chiamata. Una sera poi, pochi giorni prima dell’Epifania, mi telefona Amadeus per dirmi che ero dentro: dopo 48 anno sarei tornata in gara al Festival di Sanremo.
Eppure in tanti hanno pensato: chi glielo fa fare ad una come Rita Pavone di rimettersi in gioco alla sua età e con una carriera come la sua. Ecco, “chi te l’ha fatto fare”?
Se fossi andata in qualità di ospite, avrei già vinto la battaglia in partenza. Con un repertorio come il mio, non ci sarebbe stata gara. Ma io non volevo ricevere un’ovazione per quello che già avevo fatto, sono convinta di avere ancora molte cose da dire. Non mi guardo indietro perché il passato l’ho già conosciuto, io voglio vedere quello che ho davanti. Mettermi in gioco è vitale per me e non mi fa dare nulla per scontato: voglio far vedere che esisto, come voce e come presenza. Lo stato anagrafico serve per i documenti, ma non per valutare cosa una persona ha ancora da dare. Ci sono tanti ragazzi che a vent’anni sono dei morti viventi, eppure sono giovani.
Se uno di questi ventenni ti chiedesse chi era Rita Pavone negli anni ’60, cosa gli risponderesti?
Mi sono resa conto di quello che è stata Rita Pavone solo dopo che l’ha scritto Umberto Eco. Io all’epoca vivevo un grande sogno e come tutti i ragazzi godevo di quel momento, cercando di prendere il più possibile e non guardarmi troppo attorno. Credo che in parte sia stata anche la mia salvezza: ho sempre fatto il mio lavoro con tranquillità, non conosco la droga, non conosco l’alcol. I miei “aiutini” li ho avuti nel conoscere gente importante e dividere il palco con nomi che fino a poco prima vedevo soltanto al cinema o ascoltavo alla radio. Se non sei in grado di affrontare il pubblico, è meglio cambiare mestiere.
Quindi l’ingenuità è uno degli ingredienti della salvezza.
Ciò che avrebbe potuto causarmi danni, è stato in realtà la mia salvezza. Mi ha permesso di conoscere persone che mi hanno insegnato un sacco di cose: la mia gratitudine va ad Antonello Falqui, Lina Wertmuller, Franco Branciaroli, Don Lurio, ho avuto la fortuna di incontrare sulla mia strada tanta gente che ha creduto fortemente in me. Antonello Falqui una volta si è addirittura messo contro i vertici rai per portarmi a Studio Uno. Ognuno di loro mi ha dato la possibilità di tirare fuori delle qualità che non sapevo di possedere. Questa è stata la mia grande forza, lo stimolo che mi ha sempre pungolato.
Fra tutti i personaggi che hai incontrato c’è anche Elvis Presley: che ricordo hai di lui?
Ero a Nashville a registrare il mio terzo album per la RC americana e quando ho saputo per combinazione che Elvis sarebbe venuto ad incidere negli stessi studi, non stavo più nella pelle. Ho dovuto insistere molto, perché il colonnello Parker – il manager di Elvis – era molto rigido. Con il mio pessimo inglese e tono accorato, gli dissi: “Io torno a Torino e cosa racconto alle mie amiche?”. Quando Elvis è arrivato – però – ha sparigliato le carte: è entrato, dopo il suo gruppo, dopo il suo avvocato, dopo il suo fonico e la sua segretaria. Lo ricordo come un uomo bellissimo, magro, con i basettoni lunghi e un paio di Ray Ban gialli, che in Italia ancora non esistevano. Saluta con gentilezza tutti, poi guarda me e mi fa: “Oh, but i know you: I see you at Ed Sullivan show!”. Con il mio pessimo inglese sono riuscita soltanto a chiedergli se poteva regalarmi una sua foto, ma lui ha chiamato la segretaria che è arrivata con un suo bellissimo ritratto dipinto, sul quale mi ha scritto una dedica. Dopodiché è andato via, circondato dalla folla, proprio come era arrivato. Se non conservassi ancora il suo quadro in casa, penserei sia stato solo uno splendido sogno. Oltre a Elvis, quando ero in America ho fatto tanti altri incontri, da Barbara Streisand a Orson Wells, dai Beach Boys a Marianne Faithfull.
Come mai non sei rimasta a lavorare lì?
Mi sarebbe tanto piaciuto restare in America, ma all’epoca ero ancora minorenne e mio padre non volle. Il modo di lavorare che avevano e hanno gli americani, non lo avremo mai qui in Italia. Ognuno ha le proprie responsabilità, la professionalità
è massima: tutto un altro mondo.
Anche in Italia hai lavorato con i più grandi, per esempio Totò. Ma è vero che ti aveva scambiata per un’assistente?
Sì, è vero. Poverino, a quel tempo era già praticamente cieco. Sono andato in camera sua, in albergo ed entrando tenevo alcune cose in mano. Appena mi vide, disse: “Signorina, può pure poggiare lì”. E io: “Principe, guardi che io sono Rita Pavone”. Si è scusato tantissimo, dicendomi che stava aspettando la signora che gli portasse le camice. E non si è neanche sbagliato di tanto: prima di diventare una cantante io facevo la camiciaia.