Essere artisti significa saper arrivare al cuore della gente grazie al proprio talento. E questa è una dote che appartiene a pochi. Tra questi, però, c’è Michele Bravi, un ragazzo dalla faccia pulita e dal cuore grande, che forse proprio per questo fin dai suoi esordi ha saputo toccare le corde giuste per conquistare il pubblico.
Ne sono passati di anni dal suo debutto a X Factor e nel frattempo lui ha dovuto affrontare difficoltà che avrebbero potuto spezzarlo e che in qualche modo lo hanno cambiato per sempre. O perlomeno hanno cambiato il suo modo di vedere le cose e rapportarsi alla realtà che lo circonda. Così, dopo il successo di La geografia del buio, il suo nuovo album, arrivato – come spiega lui – “non per dare luce, ma per dire come si può imparare a convivere col buio”, arriva Cronaca di un tempo incerto, nuovo singolo, accompagnato da un videoclip che in realtà è più un cortometraggio. Lo shortmovie che lo vede protagonista insieme all’attore Sergio Albelli, racconta di un padre e un figlio che cercano di sopravvivere in un mondo governato dall’incertezza e da una civiltà che sta morendo, aggrappandosi l’uno alla forza dell’altro.
Abbiamo incontrato Michele Bravi in occasione della presentazione del corto, il giorno prima della premiere alla Festa del Cinema di Roma.
Cronaca di un tempo incerto, un progetto che chiude un po’ un cerchio, quello cominciato con La geografia del buio…
È una cosa che è partita tanto tempo fa, perché poi i tempi produttivi per organizzare una cosa del genere si allungano tantissimo. Io ho sempre avuto una stima e un’ammirazione per il mondo cinematografico. A 16 anni sono scappato in America perché volevo lavorare nel cinema, perché ero convinto che sarei entrato in qualche giro, poi ovviamente ero squattrinatissimo, non ero riuscito a fare nulla, e la musica è arrivata anche un po’ come scusa, un modo di usare la scrittura musicale per costruire dei personaggi, delle storie, che erano in quel caso tutte comunque tratte dalla mia vita. C’è stato poi un discorso di maturazione mia e della squadra, perché un contenuto di cinque minuti ma per il quale c’è un anno di lavoro dietro di costruzione produttiva, creativa, il fatto di vedere come questa cosa sia partita da me ma poi tanti altri professionisti si sono messi a disposizione di un concetto creativo, per me è molto edificante.
Una cosa che non sempre vediamo nei videoclip è una coerenza con quello che poi è il tema al centro della canzone, in questo caso invece il messaggio è molto legato.
Perché la scrittura della canzone è nata accanto alla scrittura delle immagini, è stata una cosa commistionata insieme. Quando io ero sul set del cortometraggio, la canzone ancora non era stata registrata, era stata solo scritta, quindi avevamo solo il tema e quello che stavamo raccontando, che a sua volta era stato scritto sulla base di quello che con le immagini stavamo realizzando. Sono stati due binari che pian piano sono andati insieme, per me è stato molto intenso come processo professionale e ne sono molto orgoglioso.
Hai ammesso che questa non sarà l’unica avventura cinematografica, ma che hai altri lavori in ballo. Questo significa che metterai da parte per un po’ la musica?
Mi piace pensarla come una cosa che va di pari passo. Questa è una cosa che mi vede come attore perché io interpreto una storia che non è la mia per fortuna, però per me è molto interessante e mi aiuta molto entrare nella mente creativa di qualcun altro. Io ora sto lavorando a dei film e quindi a personaggi e storie che non sono le mie, per me è davvero interessante perché mi fa vedere le cose in una maniera diversa. Io tutti i personaggi che sto piano piano frequentando mi stanno portando lontanissimo da Michele, lontanissimo da Michele Bravi, sono tutte lontane anni luce da me come persone e da me come artista. Però è assolutamente illuminante vedere come si costruiscono le storie: tu stai prestando il tuo visto, il tuo talento a qualcosa che è nato nella casa di qualcun altro e questa cosa in realtà mi aiuta molto poi anche nella scrittura musicale: è una cosa che sto tenendo molto legata, chiaramente sono due percorsi diversi però in realtà si toccano in maniera molto forte.
Hai raccontato che devi questo tuo approccio al cinema a Maria Grazia Cucinotta, che in tutti questi anni ti ha fatto un po’ da chioccia. Com’è nato il vostro rapporto?
Lei è diventata proprio una sorella maggiore per me da subito. Io ho conosciuto il mondo dello spettacolo che ancora comunque ero piccolo, avevo 17-18 anni e al di là del dato anagrafico ero estremamente ingenuo, perché venivo dalla provincia, ero andato in America, ma ero da solo. Avevo un background lontano dalle dinamiche della grande città, del business per cui ho avuto anche dei momenti di smarrimento. Sai quando ti dicono gli squali… ecco li ho conosciuti e chiaramente hanno puntato sulla mia ingenuità.
Maria Grazia Cucinotta (che rivedremo presto in tv, ndr) è stata estremamente d’aiuto intanto con un discorso di supporto, perché lei ha sempre creduto tanto nel mio talento. Lei il primo film me l’ha proposto quando io avevo 18 anni. Io in quel momento ho detto ‘Non sono in grado, già con la musica non so come funziona’. Ma lei ha sempre spinto tantissimo su questa cosa, perché io riuscissi ad avere più potenzialità costruite insieme. E poi mi ha aiutato molto a capire effettivamente come canalizzare varie cose sul mio percorso. Per esempio per Sanremo mi ha aiutato tantissimo, mi consigliava come gestirmi l’immagine, come approcciarmi sul palcoscenico, magari io andavo a trovarla su qualche suo set e lei mi portava in giro e mi faceva guardare come si fanno le cose. Mi è stata davvero vicina.
Anche con Ivan Cotroneo si sono incastrate un sacco di cose, con cui io avevo fatto La compagnia del cigno. Eravamo amici da prima e lui ha voluto che fossi nella sua serie, ha dovuto insistere tantissimo, poi ha fatto leva sul discorso dell’amicizia e io ho accettato. Lui poi mi ha dato la possibilità di lavorare con Bigazzi (direttore della fotografia, ndr) e tutto il mondo Sorrentino. È stato veramente bello. Questo per dire che ho avuto una serie di persone che in qualche modo avevano intuito questa cosa anche prima di me e che mi hanno dato quella spavalderia per essere oggi qua e dire che ho fatto qualcosa che non è solo musica ma anche progetto cinematografico.
Cronaca di un tempo incerto sembra azzeccatissima oggi che viviamo in epoca di pandemia, ma è stata scritta molto prima. Come si convive con l’incertezza? È un vivere o un sopravvivere?
Secondo me è un vivere, nel senso che comunque adesso la realtà che conosciamo è chiaramente incerta. Io prima citavo La strada di McCarty (il libro cui è ispirato il cortometraggio, ndr) perché il mondo che si racconta lì è veramente un mondo distrutto, non c’è più niente, che in confronto la nostra pandemia è il paradiso. Però loro continuano a sostenere questa volontà di resistere, parlano di questo fuoco che all’inizio sembra il fuoco come elemento primario, poi capisco che è il fuoco interiore, che ti muove a fare le cose, che ti muove alla costruzione.
E io ci credo tantissimo in questa cosa, che è una visione in realtà molto più positiva di quello che appare, perché racconti un mondo distrutto però racconti anche la vera fiamma che tiene viva la speranza di resistere in quel mondo. Quindi credo che si tratti proprio di vivere più che sopravvivere.
Sai, questo disco alla fine è una storia di resistenza veramente grande perché doveva uscire un anno prima rispetto a quando è stato pubblicato; la stessa cosa succede con questo progetto perché è da un anno che sta lì fermo. È un disco che conosce di per sé l’incertezza e anche per questo video non sapevamo se avrebbero riaperto le sale oppure no. A me in realtà ha dato tante soddisfazioni professionali, ma mi ha fatto anche capire come calmarmi su certe cose.
Io ero molto paranoico sul come costruire, programmare, ero un maniaco del controllo (e quello è rimasto), però ho una proiezione di me molto più sul breve periodo. Prima ero abituato, un po’ come tutti gli artisti, a ragionare da qua a tre/cinque anni e per me era estremamente alienante perché non abitavi mai il presente: presentavi un disco ma ne stavi scrivendo un altro. Se c’è una cosa che mi ha insegnato questo periodo di incertezza è di iniziare a vivere un po’ più le cose, lavorare su contenuti che resistano al tempo, che possano superare il periodo, la contingenza, lasciarli liberi di muoversi nel tempo. A me capitava di dover presentare dei dischi che rappresentavano una fase della mia vita che ormai era andata, per cui mi sforzavo di tornare emotivamente a quella condizione lì. Questo ora non succede.
Ultima domanda: quanto è stato liberatorio quell’urlo nel video?
È stato molto complesso, perché all’inizio lo script era molto diverso, avevamo tutto un dialogo che poi io alla fine ho deciso di non inserire. Quella cosa lì in realtà è stata improvvisata, abbiamo fatto la scena dialogata un paio di volte prima, poi a un certo punto io e Sergio ci siamo parlati, ci siamo detti un po’ di cose e lui mi ha detto: ‘liberati, andiamo’.
E io ho avuto la fortuna che la persona che poi mi ha aiutato più di tutti a costruire questa cosa, che è la mia art director Mary Parpinel, senza dire nulla a nessuno, ha parlato col fonico e gli ha detto di accendere. Noi non eravamo microfonati, quindi quella era una cosa che è stata catturata proprio nell’istante, è stata una cosa realmente improvvisata, un one take e via che per me poi è stato molto complesso: io ho avuto un crollo emotivo di mezz’ora, non so perché. Mi è uscita una cosa da dentro, ho sentito moltissimo quella sofferenza, ho faticato a riprendere fiato, sembrava avessi un attacco di panico, però è stata così intensa quella cosa che poi abbiamo deciso di tenerla e di riscrivere lo script in funzione di quel momento lì.