La nostra Irene Vella è stata invitata in Parlamento per parlare del suo libro, Era mia figlia. In un giorno importantissimo e speciale, il 25 novembre 2025. Speciale non solo perché giornata nazionale contro la violenza di genere, ma perché mentre lei, commossa, parlava delle donne cui ha ridato voce, uccise da uomini che avrebbero dovuto amarle, nella stanza accanto la Camera approvava all’unanimità il ddl sul femminicidio, già passato in Senato. Una nuova legge che prevede “l’ergastolo per chi uccide una donna per discriminazione, odio e prevaricazione.”
Alla presenza di Lella Golfo, ideatrice del premio Bellisario, dell’ex sindaca di Roma Virginia Raggi, di Martina Semenzato, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere, donne che hanno lottato e continuano a lottare tanto per le donne, Irene ha parlato di Carmela, Giulia, Sofia, Chiara, Tiziana e delle loro madri, che vivono con il dolore terribile della perdita e un senso di ingiustizia. Perché dal 1889, primo caso cui dà voce al 2023, l’ultimo citato nel suo libro, non è cambiato niente: gli uomini continuano a uccidere perché confondono l’amore con il possesso e le donne muoiono sole, inascoltate, in-difese da una giustizia incapace di ascoltare e proteggere.
Nella conferenza si è parlato tanto di prevenzione, fondamentale, a partire dall’ educazione famigliare, scolastica e culturale, proseguendo con la necessaria indipendenza economica delle donne, fatta di occupazione, welfare sociale e parità di salario. Un’ora emozionante durante la quale era palpabile la commozione e la febbrile attesa per l’approvazione della legge e sembrava che Giulia, Sofia, Chiara e tutte loro fossero sedute accanto a noi. E sorridessero.
In queste settimane tra librerie, radio, Parlamento, non ti sei fermata un attimo. Il libro, appena uscito, è già in ristampa: cosa provi e cosa vorresti dire, se potessi, alle donne protagoniste?
Provo una gratitudine che mi commuove ogni giorno. Ho scritto Era mia figlia per restituire voce a queste ragazze e il fatto che il libro sia già in ristampa significa che la gente le sta ascoltando davvero. Per me è come accompagnarle ovunque: nelle librerie, in Parlamento, nelle scuole. Se potessi parlare direttamente a loro, direi: “Vi sto riportando dove meritavate di stare: al centro. Non vi lascio più.”
C’è qualcosa che ti è stato detto dalle famiglie che ti ha colpito più maggiormente?
Sì. Ogni famiglia ha un dolore diverso e un amore identico. La storia di Chiara Gualzetti, per esempio, è una ferita che non si rimargina. È stata portata via senza alcun motivo, senza alcun segnale, senza possibilità di immaginare un pericolo. Un gesto assurdo, privo di logica, che ha travolto una ragazza dolcissima e una famiglia che non avrà mai un perché a cui aggrapparsi. È un dolore che non si può circoscrivere, perché è come se l’avesse colpita il male puro, quello che non annuncia e non avvisa.
E anche la storia di Sofia Castelli mi ha squarciato dentro: era tornata da una serata con un’amica, si era messa nel posto più sicuro che esista, il proprio letto. Forse aveva anche scritto un messaggio alla mamma, per dire che era rientrata. È questo che mi tormenta: la normalità spezzata, la quotidianità interrotta senza nessun segnale.
E poi il dolore della mamma di Daniele, un bambino. Daniele non è stato ucciso da uno sconosciuto, ma da chi avrebbe dovuto proteggerlo più di tutti. Il suo assassinio è stato un atto deliberato per ferire la madre nel punto più fragile e più sacro. È una crudeltà che supera qualsiasi immaginazione.
La frase che le famiglie mi dicono più spesso è: “Ce l’hai riportata indietro.” E ogni volta mi si stringe il cuore.
Quando hai capito che era arrivato il momento di trasformare queste voci in un libro?
Quando ho scritto la prima storia in prima persona. Ho capito subito che non stavo raccontando un fatto di cronaca: stavo restituendo identità, dignità, respiro. Poi hanno iniziato a cercarmi le loro famiglie: “Racconta anche lei. Ridalle voce.” E allora ho capito che serviva un luogo che non sparisse dopo un giorno, come un post sui social. Un libro resta. Un libro custodisce. Un libro protegge.
Era mia figlia è nato per questo: per non permettere che queste donne venissero dimenticate di nuovo.
Qual è stato il momento più difficile nella stesura?
I momenti difficili sono stati tanti. Scrivere gli istanti finali è sempre uno strappo. Ma anche parlare con i genitori, ascoltare i silenzi, le frasi che si spezzano… a volte ho dovuto chiudere il computer e aspettare.
Eppure sapevo che dovevo farlo. Perché se non lo faccio io, il silenzio vince di nuovo. E loro il silenzio non lo meritano.
Hai trovato un comune denominatore nelle loro storie, non tanto nei carnefici, ma nelle vittime?
Sì. La cosa che mi colpisce di più è quanto queste donne fossero piene di vita, di sogni, di normalità. Ognuna con il suo mondo, i suoi affetti, le sue fragilità. Molte di loro hanno provato fino all’ultimo a credere nel bene, a sperare che chi avevano accanto cambiasse.
E poi ci sono storie, come quella di Chiara, in cui non c’è neppure un segnale, nulla che potesse far immaginare l’orrore. E questo è forse ciò che fa più male: il male improvviso, il male immotivato, il male cieco.
Per questo continuo a ripeterlo, ovunque vado: un Paese civile fa una sola cosa: aiuta le donne a rimanere vive.