La visione urbana dell’archistar Maria Alessandra Segantini, tra città lente e scuole circolari

Maria Alessandra Segantini, archistar di fama internazionale, ci racconta la sua città che mette al centro donne e bambini e delle sue scuole smontabili

Foto di Federica Cislaghi

Federica Cislaghi

Royal e Lifestyle Specialist

Dopo il dottorato in filosofia, decide di fare della scrittura una professione. Si specializza così nel raccontare la cronaca rosa, i vizi e le virtù dei Reali, i segreti del mondo dello spettacolo e della televisione.

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L’archistar Maria Alessandra Segantini dello studio C+S Architects progetta città pensate per bambini e donne ed è nota per i suoi innovativi modelli di scuola circolare e smontabile come fosse un lego. Nel 2022 è stata nominata miglior architetto d’Italia ed è la prima donna ad essere entrata nell’Albo d’Onore della Repubblica di San Marino.

Grazie a questo primato, Maria Alessandra Segantini è stata scelta dal Ministero della Cultura tra i creativi del progetto “Ti racconto in italiano”. Insieme al marito e socio Carlo Cappai, ha realizzato il progetto di riqualificazione della piazza della GAMeC di Bergamo. Si tratta di un intervento strategico che connette la nuova sede del museo al tessuto urbano e ai parchi adiacenti, trasformando l’area in uno spazio pubblico contemporaneo, accessibile e concepito come estensione museale all’aperto.

E più recentemente la Segantini è stata insignita dell’Architizer Vision Awards 2025 a New York per un progetto dedicato al micro-farming di Peccioli (Pisa), propone un innovativo modello di vita rurale fondato su agricoltura rigenerativa e social housing, reinterpretando in chiave contemporanea l’archetipo della cascina toscana.

Partiamo dal progetto “Ti racconto in italiano”, per cui è stata selezionata dal Ministero della Cultura. Di cosa si tratta?
Il progetto individua venti figure creative italiane tra designer e architetti, scelte secondo criteri di merito e rappresentatività. Attraverso una serie di interviste, l’intento è di raccontare in profondità non solo le opere, ma le traiettorie di vita e di lavoro di ciascuno. Per quanto mi riguarda ho raccontato il mio percorso dalla città natale agli studi, i primi interessi, la decisione di diventare architetta, fino ai progetti più significativi e all’identità del nostro studio, fondato e condiviso con mio marito e socio Carlo Cappai. Il valore del progetto è proprio quello di costruire narrazioni personali che restituiscano il senso di ciò che si fa.

Il suo nome è spesso associato a una progettazione urbana che mette al centro donne e bambini. Come nasce questo approccio?
La città contemporanea è un organismo complesso, formato storicamente da infrastrutture veloci costruite attorno al modello del pendolare maschile: città pensate per spostarsi da casa al lavoro e viceversa. Questo impianto ha spesso sacrificato un altro livello della vita urbana: l’infrastruttura lenta.
Per infrastruttura lenta intendo lo spazio pubblico di prossimità: piazze alberate, percorsi pedonali e ciclabili, parchi, luoghi dove sostare, incontrarsi, muoversi con lentezza. Sono gli spazi vissuti principalmente da chi cura: ancora oggi, nella maggior parte dei casi, le donne. Accudiscono bambini e anziani, gestiscono molti aspetti della vita familiare e hanno bisogno di una città che renda tutto questo non solo possibile, ma dignitoso.
La tecnologia ha migliorato l’organizzazione del tempo, ma non può sostituire lo spazio fisico condiviso. Ecco perché penso che rigenerare il tessuto urbano, creare reti continue di spazi pubblici di qualità, sia un tema identitario. In Europa abbiamo una tradizione straordinaria di piazze: da Praga a Firenze, da Basilea a Madrid, tutti ci riconosciamo in quella misura umana dello spazio. Riprenderla, reinterpretarla, restituirla è un atto culturale.

Ci può raccontare quali progetti ha realizzato sulla base di questa idea?
Sì. Un esempio è la piazza del Cinema al Lido di Venezia. Era prevista come spazio temporaneo per il Festival, utilizzato tre settimane l’anno. Noi l’abbiamo trasformata in una piazza permanente, pensata per accogliere eventi ma soprattutto per restituire ai cittadini uno spazio quotidiano: un grande tappeto bianco, con panchine ombreggiate, rampe accessibili e materiali durevoli capaci di invecchiare bene.
Abbiamo ricucito il vuoto urbano trasformando l’area del terzo palazzo mai costruito in un parco, ripiantando vegetazione adatta a ospitare biodiversità. Abbiamo elevato la piazza così che anche gli anziani potessero guardare il mare, cosa che prima non era possibile. La piazza è diventata punto di riferimento: abbiamo svolto valutazioni post-occupazione per capire l’impatto sugli abitanti e i riscontri sono stati molto positivi.
Un altro progetto significativo è il nuovo museo di arte moderna e contemporanea di Bergamo (completamento previsto nel 2026). Non abbiamo demolito il palazzetto dello sport esistente, ma lo abbiamo rigenerato: abbiamo inserito una “lanterna” interna come nuovo cuore espositivo e disegnato una piazza pubblica esterna che lo apre alla città. L’edificio dialoga con il vicino Parco Suardi e include una grande terrazza pubblica sospesa con vegetazione perenne a bassa manutenzione. Vogliamo che anche gli adolescenti, spesso distanti dal museo, possano percepirlo come luogo familiare, accogliente, con soglie morbide tra interno ed esterno.

Maria Alessandra Segantini
Ufficio stampa - Maria Alessandra Segantini
Maria Alessandra Segantini

Un altro tema cardine del vostro lavoro è quello delle scuole circolari e smontabili. Come nasce questo progetto?
Abbiamo iniziato a lavorare sul tema scolastico nel 1998, vincendo il nostro primo concorso. L’idea di base era ribaltare l’uso della scuola: gli spazi privati dovevano essere solo le aule, mentre tutto il resto poteva essere aperto alla comunità anche oltre l’orario scolastico.
La nostra scuola di Ponzano, premiata nel 2009 dal Ministero dell’Ambiente, incarnava questo modello: palestra utilizzabile dalle associazioni sportive, giardino per feste di compleanno, aule musica e arte aperte a vari usi. Da queste esperienze e da un dialogo con il Ministero sono nate nel 2014 le linee guida nazionali.
Oggi abbiamo radicalizzato il modello progettando tre prototipi circolari: materne, primarie e secondarie. Le materne hanno un forte rapporto col giardino, coerente con una didattica più libera; le primarie sono spazi fluidi, senza corridoi, con strutture sospese e grandi lucernari che accompagnano la scoperta; le secondarie struttura ancora diversa.
La vera rivoluzione, però, è che sono scuole completamente smontabili: a fine vita diventano kit di montaggio e ogni componente può essere riutilizzato. Un tema cruciale visto che il settore edilizio contribuisce per circa il 37% alle emissioni globali.

Com’è la sua giornata tipo?
Non esiste una vera giornata tipo, perché siamo attivi in vari Paesi: Italia, Belgio, Inghilterra, Arabia Saudita. Possiamo passare da Milano a Bruxelles, da Londra ai cantieri mediorientali. La mia giornata parte alle cinque del mattino: venti minuti di cardio, venti di yoga e venti di arricchimento personale. Poi colazione e lavoro in studio; il pranzo dipende dagli impegni. Si finisce verso le 18-19, poi cena e tempo con mio marito-socio. I nostri figli sono a Londra: il grande lavora, il piccolo studia alla London School of Economics. Quando siamo lì, ci ritagliamo del tempo insieme.

Essere donna ha richiesto un maggiore sforzo per affermarsi come architetto?
Il fatto di lavorare con mio marito ha creato da subito un equilibrio interno. Le difficoltà maggiori le ho sentite nei cantieri: “Buongiorno architetto” a lui, a me “Buongiorno signora”. Niente di tragico, ma fa capire percezioni e dinamiche.
Non mi hanno mai fermata: ho sempre amato le sfide. La vera fatica è stata crescere professionalmente partendo da zero: mio marito veniva da una famiglia di architetti, respirava quel mondo da sempre; io no. Ho dovuto imparare tutto pezzo per pezzo. Fastidiosi, soprattutto in Italia, i commenti sessisti e il fatto che spesso, a parità di competenze, il lavoro passasse a un uomo. A un certo punto sono andata a cercare opportunità all’estero, dove ho trovato contesti più aperti.

Guardando al futuro, cosa la stimola di più?
R. L’idea che l’architettura possa essere strumento di giustizia sociale. Se il costo delle case cresce e gli spazi privati rimpiccioliscono, lo spazio pubblico diventa un’estensione della casa: un bene comune capace di restituire pari opportunità. Nel quartiere londinese dove vivevo, c’erano circa 40 m² di spazio pubblico di qualità per abitante. Se vivi in 40 m² privati, è come averne il doppio. Questa è una leva enorme di benessere urbano.
Penso che il nostro lavoro sia contribuire a creare queste condizioni: piazze, parchi, musei permeabili, scuole aperte. Strutture accessibili, inclusive, sostenibili, belle. Spazi dove si possa stare, incontrarsi, imparare, sentirsi parte.