Venti minuti per morire: giustizia per Willy Monteiro

Willy non è morto per caso, è morto per scelta. Ha scelto di non girarsi dall'altra parte e di intervenire, pagando con la vita

Foto di Irene Vella

Irene Vella

Giornalista televisiva

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Venti minuti per morire, venti minuti per colpire un ragazzino di poco più di cinquanta chilogrammi, venti minuti per guardarlo accasciarsi su se stesso, chiedere aiuto, urlare fino a non avere più voce, fino all’ultimo rantolo. Milleduecento secondi per strappare quel sorriso pulito al mondo, tanto ci è voluto per uccidere Willy Monteiro Duarte.

È da quando è successo che non riesco a pensare nient’altro perché quel viso così sorridente mi è entrato nel cuore, ha distrutto ogni mia certezza di giornalista e di madre, e l’unica domanda che riesco a farmi è “perché?“. Come si fa a uccidere volontariamente un ragazzo a calci e pugni per dargli una lezione?

Con il passare dei giorni la ricostruzione degli accadimenti che ha portato alla morte di Willy a Colleferro si fa più precisa. La cronaca ci racconta di un’aggressione avvenuta in due tempi diversi, la prima per un diverbio nato all’interno di un locale, il Due di picche, per qualche like di troppo, la seconda in una piazza vicina dove passava casualmente la vittima, e la verità è sconvolgente: Monteiro Duarte è stato pestato a morte per aver difeso un amico che veniva aggredito.

Non è morto per caso, è morto per scelta. Ha scelto di non rimanere in disparte quando la rissa stava iniziando, ha scelto di mettersi in mezzo, ha scelto di non girarsi dall’altra parte. Quando ha capito che la situazione stava degenerando, ha pensato di intervenire, cercando di far ragionare i presenti, ha pensato che sarebbe riuscito a sedare gli animi, a far capire che non ci si può picchiare per un like, che non si possono sferrare calci e pugni, per un complimento su un social, ha pensato che l’intelligenza avrebbe vinto sull’ignoranza. Ha peccato di ingenuità Willy, ha pensato che il mondo fosse buono, che forse si sarebbe preso uno schiaffo, o magari anche un pugno, ma che poi sarebbe finita tutta lì. Invece non è finita lì. E il tempo che ci hanno messo per ammazzarlo sembra infinito.

In venti minuti Willy si sarà reso conto di quello che stava accadendo, avrà capito che quei quattro l’avrebbero ucciso, e che non ci sarebbe stato un ritorno? Oppure nella sua infinita fiducia verso il prossimo avrà pensato “adesso smetteranno”, avrà chiesto pietà, avrà chiesto aiuto.

E sono miliardi le domande che mi affollano la testa, com’è possibile che ci sia qualcuno che ha filmato l’aggressione, stando alle voci che girano, e non abbia chiamato la polizia subito? Com’è possibile che i vicini adesso escano allo scoperto dicendo di non aver parlato per paura, ma come si fa a guardare negli occhi un ragazzo che muore e non sentire il bisogno, la necessità di chiedere aiuto attraverso un telefono? Anche in forma anonima? Come si fa a rimanere impassibili quando la morte ci passa accanto, ma ci risparmia?

Eppure forse a fare ancora più male è una frase detta dai parenti degli assassini e riportata dal quotidiano Repubblica detta la notte tra il cinque e il sei agosto in caserma, quando ormai Willy era già morto, coperto da un freddo lenzuolo, «Cosa avranno fatto mai? in fin dei conti era solo un extracomunitario».

E lì tutte le mie certezze sono vacillate, perché tu genitore non puoi essere così cieco di fronte ad un omicidio, di fronte a una morte così brutale, ingiusta e indegna, non puoi pensare queste cose di un altro essere umano, di un ragazzo, poco più che bambino, di ventun anni, strappato così alla vita. Sarebbe bastato il silenzio, o gli occhi abbassati, un “mi dispiace”. Sarebbe bastato chiedere scusa per quei figli disgraziati e maledetti. E invece le uniche parole uscite dalla bocca della madre dei due fratelli Bianchi sono state quelle di non giudicare i suoi figli dalle fotografie, perché loro non sono quelli.

Ha ragione signora, quelli ritratti in posa con i pugni alzati non definiscono i suoi figli, c’è solo un termine che può definire Gabriele e Marco, insieme a Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, ed è quello di assassini, perché se è vero che nessun tribunale finora ha stabilito la loro colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, è successa una cosa gravissima: un ragazzo è morto e non è stato solo un incidente.

E voi che li proteggete siete loro complici, sulle vostre mani scorre il sangue di un ragazzino di 21 anni, che niente aveva a che fare con i vostri. Willy era un uomo. Willy sognava la maglia della Roma, era cuoco, esile e coraggioso e per gli amici avrebbe fatto qualunque cosa. Ed è stato ammazzato. Lui da solo contro quattro. Willy era il vero guerriero. Era solo. Ma ci ha provato lo stesso. I quattro non hanno commesso un omicidio preterintenzionale. Hanno commesso una mattanza. Volontaria.

Che almeno sia fatta giustizia.