«Non sono un eroe, sono un uomo che ha provato a salvare un bambino»

Angelo Licheri è morto, il ricordo di Alfredino non lo ha mai lasciato: ogni notte ha ripercorso quei sessanta metri, sperando in un finale diverso

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Irene Vella

Giornalista televisiva

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Io la tragedia di Alfredino Rampi me la ricordo bene. Chi ha vissuto in quegli anni, che fosse un bambino o un adulto, è una storia davvero impossibile da dimenticare, anche perché è stata la prima volta in cui il dolore veniva trasmesso a reti unificate, una maratona del dolore e della speranza, fino all’epilogo finale, quello che nessuno avrebbe mai immaginato. Perché la verità è che tutti abbiamo sperato che quel piccolino uscisse vivo da quel pozzo infernale, perché nessuno di noi poteva immaginare che quella vicenda si sarebbe conclusa con la morte di quello scricciolo di sei anni.

Di quelle tre notti ho un’immagine più nitida delle altre, mio padre davanti alla tv, all’epoca frequentavo la prima media ed avevo l’obbligo di andare a letto entro le 22, e una di quelle sere mi svegliai per andare in bagno, trovando mio papà in lacrime in cucina davanti a quello schermo. Era la prima volta che lo vedevo piangere, le sue lacrime me le ricordo bene, erano le lacrime di un padre, che immaginava il dolore di quei genitori, che aveva sperato fino alla fine in un lieto fine, ma con il passare delle ore la speranza si affievoliva per lasciare spazio alla certezza che quel bambino, diventato il figlio di tutti gli italiani, dal quel buco maledetto non sarebbe mai uscito con le sue gambe.

La scuola stava per finire, ma in quelle mattine il dolore era diventato palpabile, nei corridoi e tra i banchi, e anche noi, che di anni ne avevamo undici, parliamo del piccolo Alfredino Rampi, e nella nostra innocenza eravamo convinti che si sarebbe salvato, perché si era mobilitata l’Italia intera, perché un bambino non poteva morire con tutti quegli adulti intorno, perché tu cresci con la convinzione che a tutto ci sia una soluzione, che puoi sbagliare, ma sei piccolo, e allora ci sarà un grande che ti toglierà dai pasticci. No, Alfredino non poteva morire, non in diretta tv, non davanti a milioni di Italiani.

E invece sappiamo tutti come finisce questa storia, il bambino non si salverà, eppure mi ricordo il presidente Pertini ai bordi di quel pozzo artesiano con le lacrime agli occhi, mi ricordo della pizza e della Coca Cola mandata giù per farlo mangiare, mi ricordo le facce di quelli che erano lì, mi ricordo la trivella fatta arrivare, le spiegazioni degli ingegneri sul come lo avrebbero recuperato, in quale punto avrebbero scavato un tunnel contiguo per andarlo a riprendere, che tu ci credevi, perché con tutti quegli attrezzi moderni ci sarebbero riusciti per forza, alla fine era “solo” un buco profondo, e cosa poteva mai essere un buco contro tutta quella tecnologia moderna.

Arrivarono volontari da ogni parte per provare a salvarlo, e ogni volta il cuore di Franca Rampi, la mamma, si è fermato, ha sperato, ha lottato, eppure anche in quel caso ci furono quelli che l’attaccarono per come era vestita, per il fatto che non piangesse abbastanza, erano gli antenati degli haters, che adesso lo fanno dalla tastiera di un pc, e allora lo facevano con le chiacchiere di paese. Da una regione all’altra, da un bar sport all’altro, da un mercato rionale ad un supermercato, come se il dolore non esibito o taciuto, fosse meno dolore di altri, come se il non strapparsi i capelli in tv fosse segno di meno amore. Ma la gente purtroppo, quando non sa, quando ignora, parla, e se può, ferisce, solo per il gusto ed il piacere di farlo, perché quando la sofferenza non ti attraversa non riesci nemmeno a riconoscerla, oppure cerchi di esorcizzarla procurando dolore agli altri.

La disperazione di Franca Rampi

E poi arrivò lui, Angelo Licheri, uno scricciolo d’uomo. Mi ricordo il suo viso, così pieno di segni di vita, nonostante i suoi 37 anni, arrivato dalla Sardegna apposta per provare a salvarlo. Lui così mingherlino e piccolo si fece calare per sessanta metri, rimase a testa in giù per quarantacinque minuti, contro i venticinque considerati il tempo massimo di sicurezza. Riuscì a raggiungerlo, per tre volte lo agganciò, e per tre volte Alfredino gli sfuggì dalle mani, l’ultima delle quali, quella fatale, il bambino scivolò ancora più giù. Indimenticabili le sue parole: «Appena sceso con le mani l’ho toccato, con un dito gli ho pulito la bocca, poi gli occhi. Lui rantolava. Gli promettevo cose bellissime, gli dicevo quando usciamo da qui ti compro una bicicletta, intanto lavoravo per cercare di liberargli le mani, per infilargli l’imbracatura. L’ho messa partendo dalle spalle, girando sotto alle ascelle e riportandola indietro. Ho intimato il tirate su, ma hanno dato uno strattone e il moschettone si è sganciato. Ho provato a prenderlo sotto le ascelle, ma davano strattoni impossibili. Quando l’ho preso dai polsi hanno tirato ancora e gli ho spezzato il polso sinistro. Il bambino non si è neanche lamentato e mi sono sentito in colpa». Poi l’ultimo tentativo: «L’ho preso per l’indumento, ho sentito che cedeva. A quel punto gli ho lanciato un bacio e sono tornato su».

Quando tornò su fu chiaro a tutti che quel bambino non si sarebbe salvato, il pianto di quell’uomo, così disperato e dignitoso, rese chiaro a tutti che non ci sarebbe stato un lieto fine. Ieri Angelo Licheri è morto, a 77 anni, per tutta la vita il ricordo di Alfredino non lo ha mai lasciato, ogni notte ha ripercorso quei sessanta metri, ogni volta sperando in un finale diverso, e chissà quante volte si sarà detto “se lo avessi preso così, se fossi arrivato un giorno prima, se non mi avessero tirato troppo forte”, condannandosi a un rimpianto eterno.

«Non mi sento un eroe, mi sento una persona che ha fatto di tutto per aiutare un bambino», così aveva detto pochi mesi fa, eppure per tutti noi lui è stato un eroe, è stato un uomo che ha provato con tutto se stesso a ribaltare il destino orrendo di uno scricciolo di sei anni, e non lo ha fatto da dietro la tastiera di un computer, ha preso un traghetto e si è presentato davanti a quel pozzo solo per poter essere utile, rischiando la sua vita per quella di un perfetto sconosciuto. Non ci ha pensato nemmeno un attimo, si è fatto imbracare ed è andato all’inferno per sessanta lunghi metri, a testa giù, per quarantacinque infiniti minuti.

È vero non è riuscito a farlo, ma almeno lui ci ha provato, mettendo a rischio la sua stessa esistenza per quella di un bambino che non aveva mai visto. E credo che questa sia la definizione più vicina alla parola eroe che io conosca. Chissà che festa ieri gli avrà fatto Alfredino quando è arrivato. Riposa in pace Angelo Licheri, sei stato il più eroe di tutti. E non lo sapevi neanche.