Un’infinita tristezza, questa la sensazione provata ieri sera dopo la fine della visione del documentario su Michael Schumacher in programmazione su Netflix, e tante le domande che rimangono senza risposta. Ma è una storia che merita di essere vista, perché le immagini rimandano a un uomo forse davvero poco conosciuto nella sua umanità, nell’amore verso la sua famiglia, allegro, compagnone e spensierato, così diverso da quello raccontato negli anni dai giornalisti, come se nella persona convissero due esseri completamente differenti: il pilota di formula uno così schivo e riservato, quasi scostante, e il marito, il padre amorevole e l’amico sempre pronto a fare baldoria.
Ripercorrendo la sua vita anno dopo anno, non puoi fare a meno di chiederti di come il destino possa giocare un ruolo beffardo nell’esistenza di ognuno di noi, perché per tutta la durata del racconto non puoi fare a meno di pensare che quell’uomo abbia vissuto una vita con l’acceleratore premuto per poi andare a scontrarsi con un fato bastardo ed avverso, un fuoripista sui campi di sci con il figlio di quattordici anni Mick, una caduta improvvisa, e per Michael nonostante indossi il casco, finisce il suo primo tempo.
Mentre scorrono le immagini il video ti sbatte in faccia quella fottuta voglia di vivere, quegli sguardi così innamorati, e poi gli inizi con una famiglia d’origine umile, ma così orgogliosa e amorevole nei confronti di questo bambino così dannatamente determinato, e scopri così un padre che lo faceva correre nei Kart con le ruote di seconda mano, perché non poteva permettersi diversamente, un ragazzino cresciuto tra gli odori di pneumatici e benzina, fino a quando non arriva lei, Corinna Betsh, e il viso di Michael cambia. Assume quello sguardo che solo le persone innamorate hanno, quasi perennemente con la testa di lato mentre la guarda, con le fossette nelle guance mentre le sorride, con il cuore che scoppia alla fine di una corsa, mentre i suoi occhi la cercano in mezzo alla gente, la trovano e la baciano come nel più romantico dei film.
E non puoi fare a meno di commuoverti, non puoi fare a meno di pensare a tutte le volte che questa donna avrà perso i battiti durante le gare di Formula Uno, come nel circuito di Silverstone, quando Schumacher schiva la morte andando a sbattere su un muro di ruote in curva al primo giro, o quando si scontra con Hakkinen, il suo avversario di sempre. Non puoi fare a meno di riflettere su quante volte l’ex pilota abbia giocato una partita con il fato, al punto da crederlo quasi immortale, come se a proteggerlo, come dirà proprio sua moglie, ci fosse un angelo custode.
Più il documentario scorre più tu ti domandi cosa sia rimasto di quell’uomo, di quella leggenda senza le sue adorate quattro ruote, lui che nel 2006 decide di ritirarsi dalle corse per dedicarsi alla famiglia, per iniziare una nuova vita, ma quando nel tuo corpo scorre l’adrenalina, puoi provare a spengerla per un po’, puoi provare anche a fare finta di nulla, a lanciarti dal paracadute più volte in un giorno sopra il golfo artificiale di Dubai, puoi provare a correre sui quad nel deserto, a fare snorkellng tra gli squali, ma dentro di te ci sarà sempre quel richiamo, ed è così che dopo quattro anni dal primo ritiro ecco Schumacher tornare in pista. Ma forse dentro di lui si è rotto qualcosa, come quando a Imola fu spettatore dell’incidente che portò alla morte di Airton Senna e delle conseguenze che quella tragedia scavarono dentro di lui: «Ho attraversato Silverstone in una macchina stradale e ho pensato “questo è un punto in cui potrei morire, questo è un altro punto in cui potrei morire”. Ho pensato “pazzo, hai sempre corso qui e ci sono sempre stati così tanti punti in cui ti puoi schiantare e puoi morire sul colpo”. Pensavo solo a quello. Non sapevo quale sarebbe stata la situazione quando sarei sceso con una vettura da corsa».
E ti ritrovi a pensare all’essere umano, alle sue lacrime in conferenza stampa dopo la vittoria del titolo mondiale con la Ferrari, un pianto inarrestabile, lacrime forse trattenute troppo a lungo, ma quelle non erano lacrime di gioia, erano lacrime di liberazione, come a voler dire “sono riuscito a vincere il titolo, ma soprattutto sono riuscito a farlo senza morire, sono riuscito a compiere questo piccolo miracolo e potrò raccontarlo ai miei nipoti.”
Questi sono i pensieri che ho avuto e ho continuato fino alla fine, fino ai frame degli ultimi dieci minuti, che sono quelli dedicati al suo secondo tempo, alla sua seconda vita, quella in cui ti domandi se davvero lui vorrebbe questo, quelli in cui ti domandi se sei mesi di coma, e sette anni di riabilitazione possano davvero aver fatto il miracolo, quelli in cui ascolti il figlio raccontare quanto gli manchi suo padre, quanto vorrebbe avere la possibilità di condividere con lui la passione per i motori, ora che anche lui è diventato un pilota, e poi ascolti bene le sue parole, anche quando dice che rinuncerebbe a tutto pur di poter riascoltare la sua voce, e di riaverlo nella sua vita come era prima, quando entrava in una stanza e tutti si fermavano a guardarlo e ad ammirarlo, perché lui, suo padre era Schumacher, una leggenda.
Ma è Corinna a chiudere il racconto, tu che l’hai guardata e ascoltata per tutto il tempo, tu che hai cercato nel suo viso il dolore, e sei riuscita a trovarlo, anche quando lei provava a nasconderlo (perché lo conosci bene quel prima e quel dopo, ha fatto parte anche della tua vita, anche se in modo meno drammatico), lo ritrovi nelle sua parole, quelle che chiudono il documentario, quelle che non danno le risposte che tu hai cercato per tutto il tempo, quelle che non squarciano il velo sulle reali condizioni del pilota, ma che dimostrano, ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, del grande amore che questa coppia deve aver provato l’uno per l’altra: «Michael mi manca tutti i giorni, manca ai nostri figli, manca alla famiglia tutta, a suo padre, a quelli che gli vogliono bene. Tutti sentiamo la sua mancanza, ma Michael è qui, in modo differente ma è qui. Continua a farmi vedere ogni giorno quanto è forte».