Era il 18 marzo del 2020, ed esattamente un anno fa la foto dei camion militari pubblicata sui social, riuscì a raccontare, senza bisogno di tante parole, la tragedia silente che si stava consumando a Bergamo. Diventò virale perché quei camion trasportavano le salme delle persone morte per Coronavirus, non erano semplici numeri, erano uomini e donne portati alla cremazione perché un numero così elevato di decessi aveva messo in tilt il sistema cimiteriale.
Mi ricordo il silenzio surreale delle strade mentre la fila ordinata procedeva, mi sono immaginata, ieri, come oggi, lo sgomento e il dolore dei parenti consumati dall’impotenza, perché se la morte fa male, proviamo solamente a pensare cosa possa essere stato dover dire addio alle persone amate, senza poterle accompagnare nel loro ultimo viaggio. Quelli che erano stati genitori, fratelli e sorelle, o nonni, si trovavano soli e freddi in bare anonime, lontani dal calore dei propri familiari, privi di sepoltura perché troppi, una tragedia nella tragedia.
Bergamo è stata la città simbolo della prima ondata, quella che più ha pagato in numero di decessi, 103.000 vittime, è come se delle città come Udine, Ancona o Piacenza fossero state rase al suolo, nel giro di un mese, giorno più, giorno meno. C’era lo strazio di chi rimaneva, di chi si era salvato, c’erano i tanti punti interrogativi su come ne saremmo usciti, mentre i protocolli ospedalieri di cura variavano e medici e infermieri diventavano i nostri eroi, c’era ancora la speranza, viva e profonda, che ce l’avremmo fatta, che la pandemia ci avrebbe resi migliori, più umani e disposti al prossimo, si triplicavano le campagne di raccolta fondi, si costruivano ospedali nel giro di settimane, ed ogni giorno passato ci faceva sentire più vicina la fine di un incubo.
Tomaso Chessa, caporalmaggiore dell’esercito, quella famosa notte era alla guida di uno di quei mezzi, il 3 maggio in un post su Facebook scrisse: “Tu guidi, scambi due chiacchiere con il collega alla parte opposta della cabina, ma quando per forza di cose, per un istante il silenzio rompe la tua routine, il tuo pensiero si posa su di loro, realizzi che dentro quel camion non siamo in due, ma in sette, cinque dei quali affrontano il loro ultimo viaggio. Ed è li che sentì addosso quella grande responsabilità, qualcosa che ti preme dentro, ogni buca, ogni avvallamento sembra una mancanza di rispetto nei loro confronti, poi arrivi lì alla fine e ti ritrovi ad abbandonare “il tuo carico” che oramai fa parte di te, come se ti togliessero una parte di cuore, cerchi di capire l’identità del tuo compagno. Delle otto persone, sono riuscito a risalire solo all’ identità del Signor Guerra classe 1938. Spero un giorno di poter conoscere tutti i cari dei miei compagni del loro ultimo viaggio, ma se cosi non fosse sappiano che c’ho messo l’anima!”.
Poi il lockdown finì, le persone cominciarono a uscire, non ci poteva abbracciare, nemmeno baciare, eppure qualcuno continuò a farlo, e così arrivò l’estate, con la voglia di dimenticare quello che era stato, come, se facendo finta di niente, potessero scomparire anche i morti. Iniziarono a fiorire complottisti, no mask e no vax, cortei di negazionisti che, in nome di una presunta libertà compromessa da un fazzoletto sulla bocca, si ammassavano in piazza con una Daniela Martani in prima fila, asserendo, tra le altre cose, che gli immunodepressi sono come “animali più deboli che in natura vengono in qualche modo lasciati indietro”. Due mesi di libertà estiva riescono a cancellare in un attimo l’orrore, la paura, il virus, e così i camion dei militari di Bergamo diventano improvvisamente “propaganda della dittatura sanitaria”, sotto i post che ricordano l’ultimo viaggio di quella notte persone scrivono che le bare fossero vuote, oppure un commento di stamani “Questa foto è una presa in giro, persone che abitano a Bergamo hanno dichiarato che non era vero niente, è stato fatto solo per terrorizzare gli Italiani.”