La storia delle mondine e dei loro canti ribelli

Il canto ribelle delle mondine e quella storia di sfruttamento, ribellione e sorellanza, tutta la femminile

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Sabina Petrazzuolo

Lifestyle editor e storyteller

Scrittrice e storyteller. Scovo emozioni e le trasformo in storie. Lifestyle blogger e autrice di 365 giorni, tutti i giorni, per essere felice

Se otto ore vi sembran poche provate voi a lavorare e sentirete la differenza di lavorar e di comandar

Alle 4:30 suonava la sveglia: il caposquadra avvisava le donne che era arrivato il momento di iniziare il lavoro. Ci si lavava velocemente nell’acqua della roggia, il fosso vicino alla cascine utilizzato anche per lavare le stoviglie, e via sui campi di riso.

Le mondine, impegnate nelle risaie, arrivavano dalla Lombardia, dal Veneto e dall’Emilia Romagna nei grandi campi di riso situati tra Pavia, Vercelli e Novara. Gli uomini non si vedevano molto tra quelle terre perché la società aveva deciso che questo era un lavoro per donne. Strano, considerando che ai tempi, noi, eravamo solo il sesso debole.

Eppure, quell’impiego fatto di turni massacranti e giornate intere trascorse a piedi nudi, con le gambe immerse nell’acqua e la schiena ricurva, era destinato a noi. A tutte quelle donne che erano diventate le protagoniste involontarie di uno degli scenari più disarmanti di sfruttamento lavorativo del nostro Paese.

La storia delle mondine

Quando toccava a loro partivano spensierate verso quella nuova avventura non sapendo, in realtà, cosa le attendeva davvero, complice la loro giovane età. Le mondine, infatti erano quasi tutte ragazzine, anche se non mancavano donne adulte e mature. La provenienza, anche se geograficamente diversa, era la medesima: famiglie povere e di bassa estradizione sociale.

Storia delle mondine
Fonte: Getty Images
Mondine al lavoro nei campi di Vercelli

Disseminate tra campi e risai, quando non lavoravano dormivano all’interno di grandi magazzini, con letti improvvisati e realizzati con assi di legno e paglia. Da lì, ogni mattina, raggiungevano i campi di riso allagati, a piedi. Potevano scegliere di raggiungere il luogo del lavoro in trattore, certo, ma il padrone decurtava le spese del viaggio dalla paga. E i soldi non c’erano e non bastavano mai per supportare quella famiglia lontana. Così iniziava la giornata di lavoro, che durava anche dodici ore. Poi arrivava la sera e di nuovo la mattina.

E ci voleva coraggio per lavorare, non solo per la stanchezza mentale e fisica, ma anche perché in quell’acqua c’era di tutto: topi, sanguisughe e zanzare che si attaccavano alla pelle già martoriata dalle ore di lavoro. E ci voleva forza anche per superare la febbre del riso, una malattia infettiva così chiamata perché causata da un parassita presente nell’acqua delle risaie.

Il canto di ribellione

Avevano grossi cappelli di paglia, per proteggersi dal sole, un mestolo di acqua concesso dal padrone, di tanto in tanto, e mezz’ora di pausa per mangiare, sempre lo stesso pasto: il riso con i fagioli. Ma potevano contare le une nelle altre: si dividevano il riso, il pane e i segreti, e cantavano: Sciur padrun dalle belle braghe bianche, Bella ciao, Mamma mia dammi cento lire.

La loro voce inondava tutta la pianura ed echeggiava, giorno dopo giorno, fino ad arrivare a noi. E non era solo un passatempo, il loro, ma un canto di ribellione, un segno di protesta e di liberazione per quelle condizioni di lavoro troppo dure da sopportare.

Il loro repertorio era vasto e gran parte di questo è conservato dalle giovani donne che hanno custodito gelosamente quell’eredità tramandata dalle nonne. C’erano i canti dei soldati, quelli anarchici e quelli partigiani. C’era la voglia di partire, di ricominciare e di tornare a casa.

Amore mio, non piangere se me ne vado via, io lascio la risaia, ritorno a casa mia.
Ragazzo mio, non piangere se me ne vò lontano, ti scriverò una lettera per dirti che ti amo.
Non sarà più la capa che sveglia a la mattina, ma là nella casetta mi sveglia la mammina.
Vedo laggiù tra gli alberi la bianca mia casetta, vedo laggiù sull’uscio la mamma che mi aspetta.
Mamma, papà, non piangere non sono più mondina, son ritornata a casa a far la signorina.
Mamma, papà, non piangere se sono consumata, è stata la risaia che mi ha rovinata. (Amore mio non piangere)

Alla fine degli anni ’60 le mondine non si videro più nelle campagne, a sostituirle furono i diserbanti. Quei canti meravigliosi di sorellanza, forza e ribellione svanirono, ma rimangono ancora oggi nella memoria collettiva di tutti noi.

Storia delle mondine
Fonte: Ansa
Le Mondine, Pavia 1948